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RAMMENDI PER UN QUALCHE FUTURO
di
Laura Rusgnach Nemaz
Ai primi di marzo si guarda con preoccupazione a quanto sta accadendo nel nord Italia, poi quella che sembrava una esagerata misura precauzionale si trasforma in un angosciante racconto di fantascienza.
Ci rinchiudono in casa, con provvedimenti via via più stringenti e, a dirla tutta, sempre più punitivi. Per allentare la tensione, si cerca di buttarla un po’ in ridere, “passerà anche questa” ci diciamo noi due, ce lo diciamo in famiglia, tra condomini e vicinato, disorientati, forse un po’ spaventati per questo mostro da science fiction americana che ci toglie la libertà di movimento. Confinati all’ora d’aria, carcerati di noi stessi.
“Stai a casa!” è il diktat martellante ovunque. I primi giorni di quarantena trascorrono in una sorta di spaesamento. L’oggetto del desiderio, le mascherine, per il momento non sono un problema: una confezione di vecchi presidi antipolvere salta fuori da un ripostiglio, dimenticati da chissà quanto tempo, e i guanti di lattice sono sempre presenti nelle case di chi ogni tanto si diletta in lavori di bricolage. In mancanza, i guanti per lavare i piatti suppliscono egregiamente alla bisogna. Sono lavabili all’infinito. E molto più chic.
Per una donna che da trent’anni lavora in casa e fuori casa, pur senza figli ma con marito e due gatti, questa quarantena sembra quasi una benedizione: si cerca di trovare il lato positivo nell’essere consegnati tra quattro mura: col tempo che si dilata, si coglie l’occasione per metter mano a tanti lavori rimandati per vari motivi; ecco che arriva il momento giusto per un repulisti generale dell’appartamento, cantina, armadi, una sorta di medesimo pensiero stupendo ci accomuna con tutto il rione, i cassonetti dell’indifferenziata si riempiono senza sosta già al 10 marzo, ci voleva una epidemia per liberarci del superfluo. Si può finalmente riprendere la lettura di volumi complessi, attività sempre rimandata sine die per mancanza di tempo diurno e sovrabbondanza di stanchezza serale; e soprattutto ci si può dilettare in cucina e mangiare finalmente assieme al proprio sposo, con calma e in orario decente, dopo una vita di spaghettate al tonno delle 20.30 ed oltre. Ci si abbandona volentieri e senza sensi di colpa al lusso di dedicarsi alla fabbricazione di piccole cose più o meno utili, per dar modo anche alla creatività ed alla manualità di trovare un loro spazio e sfogo, si impegna il cervello nella creazione di manufatti che riempiono di soddisfazione e le ore trascorrono leggere.
La bellezza salverà il mondo, diceva quel tale. E’ una pandemia, ripetono e rilanciano i media. Ligi, obbediamo all’ordine di rimanere confinati il più possibile, ma per uscire a far la spesa con guanti, mascherina e cappuccio causa Bora a 120/h ci trasformiamo tutti in tragicomici Diabolik di quartiere. Nuovo gioco di società: riconoscere il tuo vicino camuffato come un ladro. Mantenere la distanza di un metro in autobus si rivela un’impresa ridicola. Nonostante tutta la buona volontà, scatta purtroppo l’istinto di sopravvivenza: chi sale alla fermata del capolinea, si accaparra il posto migliore, ma se saliamo in dieci facciamo assembramento, qualcuno deve scendere e attendere il prossimo autobus, ritenta, sarai più fortunato.
Tra sorelle ed amiche, ironizziamo che con questo Islam che avanza, le mascherine che ci lasciano visibili solamente gli occhi sono una sorta di allenamento al futuro da kasbah che ci si prospetta. I discorsi si fanno frivoli, diamo più importanza al colore del kajal che ci valorizza meglio, piuttosto che al lievito introvabile. Sorridiamo, andrà tutto bene, continuano a ripetere. L’attenzione verso tv, radio, web e social si fa maniacale, non ci si perde una conferenza stampa, un lancio di agenzia, un pensiero degli articolisti di punta, una riflessione dei filosofi e giornalisti preferiti; al contempo, si cerca di stemperare la preoccupazione seguendo le spiritosaggini che circolano via web; ognuno sdrammatizza a modo suo, postando scemenze più o meno assortite, ridiamo per non piangere, ci hanno informato che una risata ci - e li - seppellirà.
I sensi si modificano: la vista accusa un calo di performance (se non si abita in un castello dalle stanze come piazze d’armi e il giardinetto delle dimensioni di un campo da calcio, l’occhio impigrisce) udito ed olfatto tuttavia si acuiscono: il coprifuoco smorza il frastuono del traffico urbano, delle attività portuali, magicamente spariscono i biker molesti, conseguentemente calano baccano e smog. Si torna a respirare aria più pulita, finalmente regna una pace ed un silenzio degno delle nordiche latitudini, ci si improvvisa bird-watcher dal terrazzino: la Natura, che non sopporta il vuoto, ritorna in un batter d’ali a riprendersi i suoi spazi, regalandoci visite inaspettate. Il Mondo di Quark a chilometro zero. Le belle giornate fanno il resto. Ma tapparsi in casa con l’aria di primavera che pungola corpo e spirito è un’impresa ardua da sostenere.
Le reazioni alla clausura sono soggettive, ad ognuno la sua: per il consorte che ha lavorato più ore dell’orologio, questo forzato stop cade a fagiolo: potrà riposare e recuperare tonnellate di sonno arretrato. Ma per una donna incapace di starsene con le mani in mano, il confino obbligato si trasforma ben presto in una condanna agli arresti domiciliari. Si escogitano vie di fuga del tutto legali, ed ecco le magie della costrizione via decreto: il giardinetto condominiale, finora snobbato in favore del bosco urbano poco distante (ma interdetto causa Covid) di colpo si tramuta in un preziosissimo Eden, con la differenza che nell’Eden ci vivevano solamente in due, e non erano obbligati a dividerlo a turno con altri condomini in crisi da passeggiata soppressa.
Il nostro Eden ha tanti alberi in pieno rigoglio, ma dopo venti minuti di salita e discesa della pur lunga e ripida rampa dei garage e una quindicina di giri attorno ai ciliegi, l’Eden diventa una prigione dorata, e la sottoscritta si sente come un criceto in gabbia, la passeggiata svelta sotto alle piante rimanda al circuito stereotipato dell’animale allo zoo, la ruota di sfogo per roditori, movimento obbligato e necessario per mantenersi in buona salute e non andare fuori di testa.
“L’omo tien su un cantòn de la casa, la dona tre” chiosava mia madre, detto che faccio mio. Se io mi fermo, se non mi tengo un minimo in forma per salvaguardare la schiena, la casa va a rotoli. A ciascuno il suo compito, la cura della casa spetta a me, il consorte-mani-d’oro fa tutto il resto.
Tornano alla mente scene di reclusioni più o meno forzate, viste al cinema o in letteratura, immagini alle quali attingere per autodifesa: il drammaturgo confinato in casa nel film “Le vite degli altri”, l’amico moscovita autoreclusosi durante le Olimpiadi del 1980 in “A Mosca, a Mosca!” nel tenero saggio autobiografico della slavista Serena Vitale. Le parole dell’amico moscovita pronunciate nel 1980 sembrano profetiche nel dipingere una buona fetta di società odierna libera ma rinchiusa causa pandemia: “La rabbia di un intero popolo, quei due o tre pensieri che ancora riesce a pensare, tutto sprecato in barzellette. Ci è rimasta soltanto l’ideologia delle storielle, l’unica che ci possiamo permettere, perché ormai abbiamo paura delle idee.”. Ambedue i reclusi erano in buona compagnia: libri, libri e ancora libri. Prendo buona nota, rimedio per quando mi stancherò di fare il criceto in giardinetto. “Santi di tutti i giorni” è il primo della lista. Ci si affaccia al terrazzino e ci si guarda attorno, tutto un fiorire di arcobaleni ai davanzali e poggioli, tricolori svolazzanti, un clima ottimistico e paesano, da cinema anni ’50 in bianco e nero. Ci si fa forza e coraggio, “andrà tutto bene”. Noi non siamo tra quelli che si accodano a questa melassa di buoni sentimenti da commedia americana e di ottimismo un tanto al chilo.
Osserviamo perplessi; intanto, tra un notiziario e l’altro, i pensieri iniziano a farsi foschi, in questo silenzio irreale da scenario post-atomico, il porto silenzioso fa più spavento del virus. Ulteriore presa di coscienza arriva da uno struggente video della mia città, il centro storico, la periferia, le Rive, la Riviera, filmate di giorno, in pieno coprifuoco; con il solo sottofondo del tema del film American Beauty, una ripresa delle vie cittadine in un unico piano sequenza, case, palazzi, vie, senza un’anima viva, o quasi, restano i piccioni ma le fontane sono a secco, gli alberi ancora spogli. Splendida, angosciante, spettrale, la mia Trieste ai tempi del virus. E’ questo è il futuro che ci aspetta? E’ questa la decrescita felice? E’ così che la volevate? Noi non di certo, le immagini sono uno spettacolo da incubo ad occhi aperti. E siamo solamente al 22 marzo.
I giorni passano, le ferie forzate si tramutano in cassa integrazione. I supermercati iniziano a svuotarsi di beni di prima necessità. Non è una novità per noi reduci dalla Cortina di Ferro, è un film già visto, ricordiamo ancora troppo bene gli scaffali sguarniti e le vetrine vuote (ma con le mosche morte) delle rivendite di alimentari nell’ex Jugoslavia. Faremo di necessità virtù. Non è la prima volta che ci destreggiamo tra i fornelli con la cucina degli avanzi, il bisogno aguzza l’ingegno e con l’ultimo uovo, mezzo pugno di farina, e gli avanzi del giorno prima, saltano fuori delle crespelle memorabili, con tutto il gusto della crisi pandemica del nuovo Millennio. E per questo ancora più saporite. Ogni forchettata è una dichiarazione di guerra verso chi ci ha ridotti in questo stato. Noi non ci daremo per vinti.
Con la desolazione delle strade e l’inquietudine che ci tallona, realizziamo che… “andrà tutto bene” un tubo. Chiudono temporaneamente tutte le attività non necessarie. I provvedimenti nel FVG sono stringenti, supermercati chiusi la domenica, a far la spesa solo uno per nucleo familiare. Guardo con un misto di preoccupazione ed inquietudine gli scaffali della pasta, quasi vuoti. Farina e lievito volatilizzati. Improvvisamente, ci siamo riciclati in panettieri di fortuna dall’oggi al domani. Ma non eravamo tutti celiaci? Verdure se ne trovano ancora: i fagiolini vengono dal Senegal. Soffoco a stento imprecazioni indirizzate ai dirigenti della catena commerciale di cooperative, in tempo di pandemia così solidali coi coltivatori di un altro continente, logicamente i fagiolini rimangono là. Ancora non hanno imparato che la clientela nostrana non è mona.
Nel 1820 la dama sfogliava con dita guantate di pizzo il suo carnet di ballo, la dama del 2020 sfoglia con dita guantate di lattice il suo carnet di fogli di viaggio, pardon, di autorizzazioni a sensi del DPCM, lasciapassare auto stampato che mi autorizza a scendere da casa mia fino al supermercato, e ritorno. Oppure al lavoro, e ritorno. O farmacia, e ritorno, senza sgarrare di un metro, consapevoli che lo smartphone farà la spia. Siamo in guerra, anzi, in un regime di guerra: sappiamo quando partiamo da casa, ma non sappiamo a che ora ritorneremo, dipende dalla fila che troveremo fuori dal supermercato, dalla farmacia, dalla posta. Mi ricorda qualcosa di molto vicino a noi… Ordinati e rispettosi, qualcuno si fa un selfie per aggiornare il proprio profilo social. Scatto foto anch’io, per non dimenticare nulla di questa follia collettiva.
Questa è una guerra moderna, senza nessuno che ci spari addosso. Chiusi nei nostri confortevoli bunker, dopo un periodo di acclimatamento tra le mura domestiche, le ore invece di passare, gocciolano come un rubinetto mal chiuso, e per qualcuno la clausura diventa nevrosi. E dopo 15 giorni di barzellette a tema virus propinate via web e chat, subentra una specie di crisi di rigetto del frivolo. Ognuno reagisce a modo suo: piantiamola coi buoni sentimenti e gli arcobaleni, con la conta dei morti, dei guariti, dei contagiati, dei reclusi, dei multati e denunciati. Bisogna reagire. Tempo ne abbiamo in abbondanza, l’ultimo decreto prolunga fino a Pasquetta la nostra prigionia, almeno fino a nuovo ordine.
Allora prendo la macchina. Sì, quella macchina che mi consente col pensiero di andare dove voglio senza muovermi da casa. Una macchina da cucire di oltre cinquant’anni, cimelio ereditato dalla mamma sarta. Ribalto un armadio, tiro fuori tutto il quintale di lavori di cucito messo da parte in attesa di tempi migliori e giornate lavorative meno stancanti. Eccoli, sono arrivati i tempi migliori. Ore libere a palate e creatività in abbondanza, si può desiderare di più da questa grottesca situazione?
E si comincia. “Trrrrrrrrrrr” rumoreggia l’indistruttibile Necchi, l’ago punge ed il tessuto corre sotto al piedino. “Trrrrrrrrrrrrrrrr” leit motiv delle mie giornate, ignorando tv, radio e web, non voglio sentire altro, basta decreti, basta pagliacciate di governo, basta virologi che si contraddicono, anzi fateci un favore: non offendeteci più con le vostre beghe di palazzo, baruffe chiozzotte e schermaglie accademiche, l’unica vera notizia sono i morti senza nessuno di caro attorno, pensiero che sgomenta non poco.
“Trrrrrrrrrrrrrr” fila via il tessuto, e su queste stoffe i pensieri si srotolano svelti seguendo il ritmo cadenzato dell’ago, del flusso del lavoro che accompagna in parallelo il flusso dei pensieri, sempre più foschi, sempre più cupi. Riprenderemo coi nostri impieghi, ma per quanto ancora? Sarà tutto come prima? Avremo ancora lo stesso stipendio o dovremo nuovamente tirare la cinghia per colpe altrui? Perchè questo morbo? E’ un castigo divino? Pare di sì, siamo stati cattivi e la punizione è arrivata implacabile, facciamocene una ragione. Potevamo far qualcosa, prima? Forse, chissà. Anche sì… ma, senza che ce ne accorgessimo, ci hanno tolto gli strumenti per intervenire quando ne avevamo l’occasione. “Troppo sazi” osservava mio padre amatissimo. Aveva ragione. A pancia piena, le truppe non combattono.
“Trrrrrrrrr” e si fa mente locale che qualcuno voleva la guerra, e guerra sia, ma fortunatamente noi non ne abbiamo mai vista una, i nostri vecchi sì. Ed allora, tra uno scampolo e l’altro, riaffiorano alla memoria i racconti di chi la guerra l’ha vissuta sulla propria pelle. Mamma, sei partita da 23 anni però, guarda la combinazione, proprio ora ricordo quando mi raccontavi della fame, delle cimici in casa e di come ricamavi per far passare le ore quando c’era il coprifuoco. Papà, tu che eri la nostra Treccani delle esperienze di vita, quanto mi manchi in questi momenti opachi, e quante cose vorrei chiederti in questa primavera da trincerati in casa a difenderci da un virus microscopico, quando guardo gli scaffali semivuoti, i negozi sprangati, alimenti introvabili, ed invece della maschera antigas tra un po’ dovremo contrabbandare alla borsa nera guanti di lattice, mascherine e gel disinfettante, armi spuntate contro un nemico invisibile e perciò più subdolo dei soldati tedeschi che ti marciavano sotto casa.
Non posso non fare paragoni col tempo presente e con il tuo tempo da adolescente in tempo di Guerra. Non avevate niente, eravate abituati ad avere poco o niente, tu che vivevi nel primo piano sotto ai coppi e gabinetto in comune, le privazioni sono più facili da sopportare se uno già di suo non ha nulla; ma noi? Noi che abbiamo tutto? Quanto sarà difficile per tanti, per molti, vedersi stravolgere una vita farcita di superfluo? Sì, la vostra vita era tremenda; anche la nostra, pensa, ci lagniamo perché appena rientrati in casa dobbiamo disinfettare con l’alcol e l’amuchina ormai introvabili maniglie e smartphone. Quando tutto finirà, ci guarderemo tra noi come dei sopravvissuti e faremo l’inventario, chi c’è, chi non c’è più.
“Trrrrrrrrrrrrr”. Eravate sospettosi anche voi? La delazione durante il Regime era parte del sistema di vita, raccontavi. Ecco, non è cambiato nulla, sai. I delatori sono tornati, alla tv locale fioccano le telefonate di telespettatori che denunciano chi viola la quarantena: “C’è uno che fa jogging! La ciclabile è piena di gente! Il mio dirimpettaio va al super ogni giorno invece di rimanere in casa!”. Nel silenzio irreale del condominio, le antenne si rizzano attente a cogliere ogni minimo rumore fuori posto, si contano quante volte il vicino ha aperto la porta di casa, si osservano torvi gli altri circolare in strada apparentemente senza motivo, roba da far impallidire anche la defunta DDR con la sua onnipresente Stasi. Il sospetto serpeggia ovunque. Orribile sensazione. La borsa della spesa portata sotto braccio diventa un alibi perfetto per circolare senza destare troppi sospetti. Chi gira a mani nude è un nemico della società.
“Trrrrrrrrrrrrr”, si cuce, si rammenda, si crea, ogni tanto si ascolta dai media il saccente di turno, il politico, il sociologo, una marea di maestri di pensiero spuntati come funghi ben felici di esprimere il proprio parere o elargire preziosi consigli senza contraddittorio da confortevoli salotti e studioli di casa per dar il buon esempio, ma non ce n’è uno che faccia autocritica e rilevi che il vero problema di fondo sta nella vacuità della nostra società storta, così come l’abbiamo conosciuta da almeno una cinquantina d’anni; “andrà tutto bene”, il tessuto corre, il filo si srotola e penso che andrà tutto bene un’ostrega, se non ci togliamo il velo dagli occhi ed impariamo a vedere l’orrore ed il vuoto morale e spirituale che ci circonda ed il futuro più stretto e misero che ci aspetta, osservando sgomenti un Pontefice dalla faccia terrea, officiante in una Roma mai così deserta, glaciale e surreale come ce l’ha mostrata il servizio pubblico. L’Apocalisse in diretta TV.
“Trrrrrrrrrrrrr”, il tessuto avanza, mentre un altro tessuto, quello sociale, scompare, in città resteranno soltanto smagliature. Quanti negozi, quante attività non riapriranno più? Quante serrande a fine emergenza ritroveremo abbassate? Quante famiglie saranno in difficoltà, sul lastrico o peggio? Quando torneremo a passeggiare liberi e saremo circondati da edifici scheletrici ed un silenzio cimiteriale, i negozi chiusi come tante orbite vuote, ci pentiremo di aver acquistato il libro, il maglione, il disinfettante su Amazon invece che dal negoziante all’angolo?
“Trrrrrrrrrrrrrr”, l’ipocrisia regna sovrana, l’emergenza ci riavvicina e siamo tutti solidali, com’è bello fare la spesa sospesa, che soddisfazione recapitare un pacco di pasta a chi non può uscire, cantare “Azzurro” tutti assieme e applaudire dalle finestre il personale sanitario, salutare ottimisti il dirimpettaio che fino al giorno prima ci fregava il parcheggio sotto casa, e mentre la fiandra scivola di centimetro in centimetro sotto alle mie dita non posso far a meno di pensare che a fine emergenza ritorneremo nuovamente a guardarci con fastidio, esattamente come prima, e la solidarietà di oggi è soltanto l’altra faccia dell’ipocrisia di ieri, e di domani. Che emozione, vedi la distinta e patriottica anziana signora stendere il tricolore e cantare l’inno nazionale, dimenticando però di avere la donna di servizio in nero e pure slovena che costa meno. E col confine chiuso, chissà quando la rivedrà.
“Trrrrrrrrrrrrrrrrr” tutto si cuce, si rattoppa, si rammenda perché del doman non v’è certezza e con tutti i negozi chiusi “il bisogno fa trottar la vecchia” recitava un antico adagio scovato sulla Settimana Enigmistica. Il tempo presente è un tempo strappato, sfilacciato, liso e consunto, mettiamoci una pezza se vogliamo continuare a vivere almeno con quel poco di dignità che ancora non ci hanno scippato per decreto. Il recupero ed il riuso tornano di moda e da un vecchio lenzuolo quadrettato saltano fuori tovagliette, stracci per la cucina e via inventando.
“Trrrrrrrrrr”. Domenica delle palme col divieto di uscire per prenderne un ramo, allora facciamo finta che. Guardo i miei prodotti e penso che ho dato nuova vita a cose vecchie; mi piacerebbe tanto che a fine emergenza si possa dare nuova vita a certe idee messe da parte come abiti smessi perché fuori moda. Recupero e riuso, ecco il nostro nuovo mantra da ricamarci addosso.
“Trrrrrrrrrrrrrrrr”, è arrivato un bimbo nuovo nel condominio accanto al nostro, beato lui che comincia adesso la sua avventura nella vita e non ne saprà nulla fino a quando qualcuno glie lo ricorderà, un bimbo nuovo per un mondo patchwork, fatto di tanti recuperi di idee antiche rimesse a nuovo, un mondo dalle cuciture robuste, rozzo ma confortevole, severo ma giusto, un mondo capace di meritarsi questo cuoricino che batte ignaro di tutto tra le braccia di mamma e papà nel giardino condominiale, sotto ai ciliegi in fiore accarezzati dal sole ormai d’aprile.
“Trrrrrrrrrrrrrr”. Tolgo per un attimo il piede dal pedale della Necchi, giusto in tempo per sentire un vagito arrivare lieve fino alle nostre finestre. Sorrido, prendo le forbici e taglio il filo, rimirando orgogliosa il mio lavoro che ci infonde gioia e speranza per i radiosi giorni a venire. Sono riuscita a confezionare la mia prima mascherina.
Del 09 Aprile 2020
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