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Antonio Serena
La strage di Oderzo e gli eccidi partigiani nel Basso Trevigiano 1944-45
A Edoardo Gioacchino
«...Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso.»
Cesare Pavese, La casa in collina, Einaudi, Torino, 1961
«Come mai nei nostri paesi dominava incontrastata un’immagine tutta negativa della Resistenza?»
Livio Vanzetto (storico)
«Qualcuno non era ancora spirato e dibattendosi nell'acqua invocava “Mamma, mamma”, ed il feroce Bozambo sparava a lui nella nuca dicendogli: “Questa è tua mamma” »
Dal «Diario» di don Giacobbe Nespolo (sacerdote a Oderzo)
Il 28 aprile 1945, a guerra conclusa, nella canonica di Oderzo (TV) e alla presenza di monsignor Domenico Visentin, si addivenne alla firma di un accordo tra il Sindaco della Città Plinio Fabrizio, il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) rappresentato da Sergio Martin e i responsabili militari della RSI della zona, col. Giovanni Baccarani, com.te della Scuola Allievi Ufficiali di Oderzo e magg. Amerigo Ansaloni, com.te del Btg. “Romagna”. Il patto prevedeva la consegna delle armi da parte dei 600 militari della RSI (Allievi Ufficiali, Btg. “Romagna” e Btg. “Bologna”) di stanza in città o nelle vicinanze, il loro concentramento all’interno del Collegio Brandolini di Oderzo e il rilascio agli stessi di un lasciapassare per raggiungere le proprie famiglie. Una volta sottoscritto l’accordo e dopo che i fascisti ebbero deposto le armi, fecero la loro comparsa i partigiani della brigata “Cacciatori della Pianura”, dipendente dalla Divisione “Nino Nannetti” e legati al Partito comunista, i quali pretesero la consegna dei militari, affermando di non accettare il patto sottoscritto dalle parti sebbene riconosciuto dagli stessi comitati partigiani regionali. In tre riprese - nelle notti del aprile, del 1° e del 15 maggio –Da Ros Attilio (“Tigre”), Venezian Adriano (“Biondo”), Pizzoli Giorgio (“Jim”), Lorenzon Silvio (“Bozambo”), Baratella Diego (“Beck”), Bellis Francesco e Zara Rino provvidero a prelevare i fascisti a gruppi e a fucilarli a Oderzo e Ponte della Priula, rapinandoli poi del danaro e degli oggetti personali. Nonostante i tentativi di corruzione dei testimoni da parte dei partigiani, nel dicembre 1953 il Tribunale di Velletri riconobbe le responsabilità degli imputati e li condannò a pene variabili dai venti ai trent’anni di carcere. Grazie all’ “amnistia Togliatti” le pene vennero successivamente condonate e i responsabili dei massacri trionfalmente accolti a Roma da Togliatti, Longo, Amendola, Pajetta e Terracini nella sede del PCI di via delle Botteghe Oscure. La strage di Oderzo non fu un caso isolato. In tutta la provincia, in particolare nella Bassa Trevigiana, durante e dopo la guerra civile la violenza di partigiani e criminali comuni si scateno contro vinti e civili inermi molto spesso per motivi di lucro o di vendetta personale.
Prefazioni
«Cessate d’uccidere i morti»
di
Francesco Lamendola
Antonio Serena non è semplicemente un saggista, è uno storico. Nelle sue ricostruzioni delle tragiche vicende legate alla guerra civile italiana del 1943-45 (ma che ebbe sanguinosi strascichi fin verso il 1947 e oltre), si è sempre basato sui documenti. È andato a leggersi gli atti processuali, ha intervistato i testimoni oculari, si è servito ampiamente degli scritti dei protagonisti, anche e soprattutto quelli di parte resistenziale: perché, nella ricerca della verità, non si è mai lasciato influenzare da pregiudizi ideologici o da simpatie e antipatie personali. Un tale metodo di lavoro – che, nel suo scrupolo di esaustività e di esattezza, lo ha incalzato quasi fino al perfezionismo – gli è costato, come si suol dire, veglie e sudori, oltre a non pochi fastidi di carattere anche personale. Non è difficile immaginare come lo storico intransigente e appassionato, nel sollevare la polvere depositatasi su fatti e persone che molti, ormai, avrebbero preferito dimenticare o vedere dimenticati, inevitabilmente finisca per attirarsi malumori e inimicizie, se non vere e proprie ostilità. Gli uni soffrono perché i ricordi sono ancora troppo dolorosi e le ferite mai rimarginate; gli altri sono indignati perché vedono portate a conoscenza di tutti azioni che non sempre furono limpide, talvolta anzi biasimevoli o perfino criminali. Ricostruzioni del passato come quelle condotte da Serena non sono fatte per piacere a tutti, per usare un eufemismo; e tuttavia, proprio per questo, costituiscono una preziosa acquisizione di conoscenze, che consente di guardare a quel tragico capitolo della storia italiana con maggiore consapevolezza ed equanimità. Platone diceva che è filosofo chi sa andare oltre la parte e vedere il tutto, mentre non lo è chi non lo sa fare; ebbene, pensiamo che la stessa cosa si possa dire dello storico. Vedere il tutto: a trecentosessanta gradi. Parrebbe un concetto ovvio e quasi scontato, invece, fino a non molti anni fa, le cose stavano ben altrimenti. Noi non avevamo una storia obiettiva della guerra civile 1944-45, a dispetto dell’evidenza e a dispetto del fatto che ce ne fossero già state due: una nel 1919-22 e un’altra, combattuta in Spagna, anche fra italiani, nel 1936-39. Esistevano solo ricostruzioni di parte: di quella che alla fine risultò vittoriosa e che pretese di riscrivere la storia a modo suo. Se questa lacuna è stata colmata, specialmente a livello della storia locale, dalla quale – è bene ricordarlo – nasce la storia nazionale (e non viceversa), lo dobbiamo ad alcuni coraggiosi ricercatori, come Antonio Serena. Prima, i morti della parte sconfitta non avevano dignità storica: erano unicamente ombre, numeri, simboli anonimi di un’idea «sbagliata». Era come se fossero morti due volte. «Cessate di uccidere i morti», avrebbe detto Giuseppe Ungaretti. Nel salotto buono della cultura e della politica italiana non c’era posto per loro, per la loro memoria. Ecco perché abbiamo un debito di gratitudine nei confronti di Antonio Serena e di quanti, come lui, ci hanno permesso di completare il quadro delle vicende relative a quel terribile biennio della nostra storia recente.
FRANCESCO LAMENDOLA è nato a Udine nel 1956. Laureato in Lettere e filosofia, insegna nei licei. Ha pubblicato numerosi saggi storici, musicali, filosofici, di narrativa e poesia, tra i quali L’Unità dell’Essere, Metafisica del Terzo Mondo. Il genocidio dimenticato. La soluzione finale del problema herero, Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C., Fogli Sparsi (E-Book). Collabora a diverse riviste («L’Universo», «Il Polo», «Alfa e Omega», «Il pensiero mazziniano», «X-Times») e a siti Internet («Arianna Editrice», «Edicolaweb», «Associazione Ecofilosofica »). È conferenziere radiofonico di varie associazioni culturali, tra le quali la Società Dante Alighieri, l’Alliance Française e l’Istituto per la Storia del Risorgimento.
Uno schiaffo al «negazionismo buono»
di
Cecilia Talamini
Ritorna lo storico Antonio Serena, autore di numerosi successi editoriali, con lo stile incisivo e incalzante che lo contraddistingue, e ancora ci trasporta indietro nel tempo, quando migliaia di «fratelli» si trovarono a lottare su fronti avversi, con gli animi divisi da opposte passioni e ideologie. Serena cattura la nostra attenzione ricostruendo quelle vicende, specialmente quando descrive ciò che accadde alla fine del conflitto, quando la barbarie raggiunse il suo acme e taluni «fratelli» divennero biechi esecutori di gratuite mattanze. Le vicende proposte, rivisitate in quest’ultimo lavoro dell’autore, con l’aggiunta di inediti, sono narrate con dovizia di particolari e si snodano con un’impostazione obiettiva, che amalgama un vissuto drammatico alla naturale partecipazione del lettore, in una cornice che ha il ritmo avvincente di un romanzo convulso che afferra il lettore ed equilibra, in una magistrale sintesi, raziocinio e sentimento. Uno strappo deciso e risoluto squarcia un sudario artefatto che ha adombrato quasi settant’anni di indifferenza e voluto negazionismo, rendendo spoglia la storiografia e orfani d’informazione i nostri figli. Nell’ordito delle microstorie di cui è intessuto il testo si accavallano protagonisti e personaggi secondari, corali ma mai irrilevanti. Tra i tanti, svettano le figure ancora acerbe dei non più giovani militi dei battaglioni «Bologna» e «Romagna» della GNR e dei ragazzi della Scuola allievi ufficiali di Oderzo della RSI, conosciuti e benvoluti in quella città, i quali, nonostante abbiano deposto le armi in seguito alla promessa di aver salva la vita, il 30 aprile 1945 vengono prelevati dal collegio «Brandolini», dove erano stati dislocati, e uccisi a scaglioni, dopo aver subito atroci torture, sul fiume Monticano e al Ponte della Priula. Nel compimento del massacro parole sinistre accompagnano l’agonia di tanti giovani innocenti da parte di carnefici che hanno un volto e un nome, e i cui crimini non possono trovare alcuna giustificazione. Le testimonianze, pur in un clima fosco e cupo, sono particolarmente coinvolgenti, traboccano come un fiume in piena e ci offrono un valido aiuto per ristabilire la verità su crimini efferati e stragi perpetrati nei confronti del nemico vinto. Sotto l’incalzare di racconti precisi e circostanziati cadono, uno dopo l’altro, i ferri di una museruola ideologica che ha imprigionato troppo a lungo la verità: il nostro Veneto si ammanta ancora di rosso, ma le vittime si riappropriano finalmente della loro voce. Antonio Serena, pioniere di queste tematiche che inaugurano il filone del revisionismo storico (emblematico il suo capolavoro I giorni di Caino, pubblicato nel 1990), con la sua integra onestà intellettuale e la sua profonda esigenza etica ha avvertito presto, fin dagli anni Ottanta del XX secolo, il rumore assordante di quel silenzio imposto dalla vulgata di parte e, con il suo intransigente desiderio di ottenere delle risposte e di affermare la verità, ha condotto per anni, con impegno costante e rigoroso, ricerche serrate, che gli hanno permesso di fornire una preziosa e inconfutabile documentazione a chi voglia accostarsi a quel drammatico passato con animo sgombro da pregiudizi di parte. Serena, dunque, disintegra l’immagine posticcia di una memoria addomesticata e consolidata da un conformismo a volte omertoso, aiutandoci ad andare oltre le versioni di comodo, poiché l’analisi storica implica l’assunzione di responsabilità e reca un intrinseco messaggio: puntare in alto, verso una verità che non ha colori ideologici né bandiere da difendere, tranne quella della verità stessa.
CECILIA TALAMINI è nata a Conegliano ed è docente di Lettere nelle Scuole superiori. Impegnata nel sociale e nell’organizzazione di eventi pubblici, ha al suo attivo numerose pubblicazioni di carattere poetico e rievocativo: Commedia Barocca, poesie, (Rebellato ed., 1982); Canto di Morgana, poesie, (Edizioni Bresciane, 1984); Ancora una volta Morgana, racconti (Edizioni Bresciane, 1984); Traslocando all’ombra del riverbero di una maschera bianca, poesie (Lo Faro ed., 1985); Preghiera notturna, poesie di Oscar Talamini (Il Gabbiano ed., 2006); Un uomo. Ricordo di Ennio Talamini (Atena, 2010); Lobbia. Mio nonno si chiamava Remigio (Atena, 2010).
Premessa
Dei circa 5000 «fascisti o presunti tali» trucidati nel Veneto durante la guerra civile il contributo più alto è stato pagato dalle province di Treviso, Vicenza e Belluno. Non a caso nelle tre zone operavano le più consistenti formazioni comuniste venete: La «Nino Nannetti» (Treviso-Belluno) e la «Ateo Garemi» (Vicenza). Episodi di incredibile barbarie contrassegnarono i giorni conclusivi della guerra fratricida nel Veneto. Nel Vittoriese, sul Cansiglio, nel Feltrino, sull’altopiano di Asiago, a Susegana, Oderzo, Ponte della Priula, Mignagola di Carbonera, Revine Lago, Valdobbiadene, Schio, Thiene, Valdagno, Codevigo, Cavarzere, Rosolina e in molte altre località fascisti e civili caddero a centinaia, spesso senza alcun processo e senza che nemmeno fosse nota la loro identità. Questa ricerca, una delle prime nel suo genere, che andò in stampa per la prima volta nei primi anni Ottanta del XX secolo, in un periodo in cui la verità sui massacri compiuti dai partigiani a guerra finita era bandita e perseguita con maggior vigore di oggi dalle leggi sul «vilipendio della resistenza», esamina in tutti i particolari quanto accaduto in una di quelle stragi alla luce degli atti processuali e delle molteplici testimonianze rilasciateci da chi – da una parte o dall’altra della barricata, o il più delle volte da semplice osservatore – visse da vicino quei terribili momenti. Lungi dal voler suscitare passioni e rancori, l’iniziativa si prefigge – grazie soprattutto alla limitatezza dell’argomento trattato – di portare un contributo al ristabilimento di una verità troppo a lungo vilipesa da silenzi, reticenze e opportunismi politici. È stata, quella di esaminare nei dettagli le piccole storie locali, una scelta opportuna. Tant’è che anche la storiografia resistenziale, chiamata a dare risposte precise, ha cominciato a parlare di quegli episodi negati, fino ad allora rinchiusi nella memoria popolare oltre che negli archivi dei tribunali e di associazioni culturali di parte, dovendone ammettere quantomeno l’esistenza. Nonostante le convinzioni dure a morire di qualche apologeta di partito, quello che Romolo Gobbi ebbe a chiamare il «mito della resistenza»,1 fondato sulla sconfitta dei vinti-cattivi, non abbaglia più il ricercatore storico. Per chi si occupa di ricerche storiche non vi è alcun dubbio che la resistenza abbia rappresentato un fenomeno marginale nelle vicende del nostro Paese, che non incise minimamente sulle sorti del conflitto e che provocò solo un’inutile e sanguinosa guerra civile voluta da chi – più che a «liberare l’Italia» – mirava a consegnare al nostro Paese nelle mani di Stalin, riuscendo solo, alla fine, a consegnarlo nelle mani di altre potenze. Irrilevante fu anche la presenza militare dei partigiani: la vantata costituzione di «divisioni», «brigate» e «battaglioni» in termini di organici si riduceva alla presenza di reparti numericamente poco consistenti che operavano con tecniche di guerriglia basate su sabotaggi, imboscate e azioni «mordi e fuggi», provocando rappresaglie pagate quasi sempre dalla popolazione civile. Alla prova del fuoco dello scontro frontale nei rastrellamenti del Grappa e del Cansiglio, queste forze, disorganizzate e mal equipaggiate, si sfaldarono riapparendo solo a guerra finita per occupare città deserte, sfilare da vincitori a fianco degli angloamericani e consumare le ultime vendette su militari e civili. A fare da schermo a queste lampanti verità è stata costruita e diffusa una vulgata distorta su tanti tragici episodi. In molti testi apologetici del periodo resistenziale, per quanto riguarda ad esempio i rastrellamenti tedeschi, spesso insensati, si omette di riconoscere che questi erano previsti e riconosciuti dalle Convenzioni internazionali allora vigenti. Così come si tendono a sminuire le responsabilità dei partigiani nelle stragi operate dai tedeschi. A Marzabotto e in altre zone d’Italia, come a Sant’Anna di Stazzema, dopo aver scientificamente provocato la rappresaglia tedesca contro donne e bambini, dopo aver invitato i paesani a non abbandonare le case pur sapendo dell’imminente rastrellamento ed essersi dati alla fuga, a massacro compiuto i partigiani si dedicarono alla spoliazione delle case abbandonate asportando portafogli e oggetti di valore dai corpi dei morti. A Roma, dopo aver provocato la rappresaglia delle Fosse Ardeatine ed essere scappati evitando di consegnarsi onde risparmiare la vita a tanti innocenti, i comunisti influenzarono persino la scelta delle persone da uccidere: i concorrenti della formazione trotzkista «Bandiera Rossa», in contrasto con la linea ufficiale del PCI. E che si trattasse di azioni sconsiderate, miranti unicamente a scatenare la reazione tedesca, lo scrive a chiare lettere lo stesso Giorgio Bocca: «Il terrorismo non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio». Un inviolabile silenzio è stato poi mantenuto per decine di anni sulle stragi consumate dalle bande partigiane comuniste nel nord del Paese e, ancor oggi, il ricercatore che intenda far luce su quegli episodi, trova difficoltà ad accedere agli archivi dei vari Istituti della Resistenza gestiti da ben definite fazioni politiche. Così, mentre si scriveva della tragica fine dei sette fratelli Cervi si ignorava contemporaneamente l’eccidio per mano partigiana dei sette fratelli Govoni, consumati ambedue nell’Emilia; o si poneva sullo stesso piano l’eroica figura di Salvo D’Acquisto e i brigatisti dei GAP che provocarono un gran numero di rappresaglie, prima fra tutte l’attentato di via Rasella a Roma. Nel frattempo si andava diffondendo, specie tra i giovani, una cultura dell’odio che ha dato i suoi frutti negli anni Settanta e che è ben riassumibile in queste righe altamente educative tratte da un libro di Beppe Fenoglio che circolava in quel tempo in molte scuole italiane: «Basterà che uno qualsiasi di questi renitenti, armato anche lui di catenaccio, o di roncola o di temperino, apposti il fascista sulla sua strada di prepotenza, e gli si cali addosso. Alle spalle, beninteso, perché non si deve affrontare il fascista a viso aperto, egli non lo merita, egli deve essere attaccato con le medesime precauzioni che un uomo deve prendere con un animale. Gli si cala addosso, lo ammazza e lo trascina per i piedi in un posticino dove seppellirlo, cancellarlo dalla faccia della terra. E sarebbe consigliabile portarsi dietro una scopetta con la quale cancellare per l’eternità persino l’impronta ultima dei suoi piedi sulla polvere delle nostre strade. Questo è quello che si chiama oggi un partigiano...». Solerti e qualificati esponenti di questa repubblica hanno saputo commuoversi di fronte al sacrificio delle vittime del brigatismo rosso di quegli anni, dopo aver a lungo esaltato le gesta di Francesco Moranino o di Rosario Bentivegna – padrini e maestri dell’eroismo del «mordi e fuggi» – additandone l’esempio alle giovani generazioni. Si è talmente andati oltre in questo sistematico scempio della verità che nel dopoguerra un Comune dei Colli Euganei, Pedescala, ha sdegnosamente rifiutato – e non è un caso isolato – le onorificenze resistenziali ricordando che il 30 aprile 1945 i tedeschi erano in ritirata e che non rappresentarono nessun atto eroico le fucilate alle spalle di quattro partigiani che provocarono la feroce reazione germanica. Siamo, è vero, un popolo latino, passionale, romantico. Ma come dimenticare che un altro Paese europeo, la Spagna, nonostante qualche isolato rigurgito, ha da tempo chiuso il conto con l’infausto ricordo della guerra civile stendendo un velo di pietà sulle passioni e tumulando nella Valle de los Caidós, l’uno accanto all’altro, i caduti delle due parti in lotta? Un altro esempio ci viene da un Paese di storia recente affine alla nostra, la Germania. Quando, dovendo recarsi in Russia a conferire con Josip Stalin, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer venne a sapere che, per raggiungere il luogo dell’incontro, avrebbe dovuto attraversare un lungo corridoio dov’erano in mostra gli stendardi dei reggimenti germanici strappati in battaglia dai russi nel Secondo conflitto, pretese e ottenne che fossero rimossi. «Sì», disse, «sono e resto antinazista, ma oggi sono Capo della Nazione tedesca, di tutta la Nazione tedesca e ho il dovere di tutelare la memoria storica della mia Patria, nelle sue luci e nelle sue ombre.» Parecchi anni dopo, nel settembre del 1983, richiesto alla vigilia di un suo viaggio in Jugoslavia di portare un fiore alla memoria dei più di 20.000 italiani infoibati dai titini, Sandro Pertini ha risposto: «Non ho mai inteso, né intendo oggi spogliarmi dell’altra veste che non cesserò mai di indossare: quella di antifascista, di resistente, di partigiano». La storia valuterà senza abbagli la diversa statura dello statista e del presidente partigiano e saprà distinguere tra chi ha scritto la storia e chi ha preferito interpretarla politicamente. Sempre che la verità e la giustizia non continuino ad essere manipolate da giudici e storici che, mentre a Norimberga puntavano il dito accusatore contro i «criminali di guerra» tedeschi, fingeranno di non accorgersi delle atomiche lanciate su Nagasaki ed Hiroshima.
Antonio Serena è nato e risiede in Veneto. Giornalista e scrittore, già docente di Civiltà francese nei licei e parlamentare di quarta legislatura, coordina attualmente la rassegna stampa on line «liberaopinione». Laureato in Lingue e letterature straniere, in Lettere moderne e in Storia, si è specializzato in Storia contemporanea all’Università di Urbino. Ha pubblicato: L’epurazione in Francia nel secondo dopoguerra (Ferretti, 1974), I giorni di Caino (Panda,1990, rist. Manzoni 2001), La cartiera della morte (Mursia, 2009) e I fantasmi del Cansiglio (Mursia, 2011).
Nota dell’autore
Questa ricerca è stata già parzialmente pubblicata nel volume di Antonio Serena, I giorni di Caino, Panda ed., Padova 1990 (ristampa Manzoni, Roma 2001), ed è qui riproposta in versione riveduta e aggiornata. L’autore si dichiara disponibile ad accettare contributi e suggerimenti a integrazione del prese
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Manzoni editore, via Benzi 33 - 31100 Treviso
Distribuzione: 0423-83383 - 348-9800759
A cura di Maurizio Pagliano
Copertina: Annamaria Serena
Già pubblicato il 18 Ottobre 2013
Del 05 Luglio 2018
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