In questo sito utilizziamo i cookies per migliorare il sito stesso e la sua fruibilità. Alcuni cookies sono necessari per il funzionamento del sito web.
Utilizziamo alcuni cookies di terze parti per acquisire informazioni statistiche in formato anonimo al fine di migliorare il sito.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all'uso dei cookies.
Puoi utilizzare le impostazioni del tuo browser se vuoi bloccare i cookies di questo sito.
LIBIA: L’ITALIA NON HA PIÚ UNA POLITICA ESTERA
La presenza turca a Tripoli minaccia la nostra sicurezza
L’Opinione
di
Michele Rallo
Ho avuto modo, in piú occasioni, di sottolineare l’esigenza di un ritorno alla Politica, quella con la P maiuscola, quella fatta di impegno, di serietá, di competenza, di conoscenza dei fatti. In contrapposizione all’ubriacatura dell’antipolitica, del vaffa, dell’improvvisazione, dell’incompetenza eretta a sistema. Ció vale per tutti gli ámbiti della politica, ma soprattutto per la politica estera e per le sue implicazioni di carattere militare.
Nei momenti di calma piatta si puó forse far finta che basti un po’ di buona volontá per sopperire al deficit culturale dell’anti-politica; ma quando la situazione precipita, quando le crisi internazionali si moltiplicano, quando l’eco delle cannonate giunge fino ai nostri confini o alle nostre coste, allora l’incultura politica di certi governanti appare in tutta la sua drammatica pericolositá per gli interessi nazionali.
Prendiamo questo momento, per esempio, con quel che sta avvenendo nello scacchiere iraniano-irakeno-siriano e – cosa per noi ancor piú importante – con i pericolosissimi sviluppi della situazione in Libia. E, in questo momento, l’Italia si ritrova con un Giuseppi presidente del Consiglio che veleggia ai margini dei confini libici alla disperata ricerca di qualcuno che finga di prenderlo sul serio, per salvare quel che resta della sua faccia; e con un Giggino ministro degli Esteri che é la personificazione delle piú totale ignoranza di una materia complessa e difficile come la diplomazia.
Chissá se Giuseppi e Giggino possiedano la piú pallida idea di ció che la Libia abbia rappresentato per l’Italia fin quasi dall’indomani del raggiungimento della nostra unitá nazionale (e sino alla demenziale aggressione a Gheddafi da parte di Sarkozy e di Hillary Clinton). Chissá se i nostri governanti pro-tempore abbiano memoria della guerra italo-turca del 1911-12, se si rendano conto che cento e piú anni fa l’Italia conquistó la Libia strappandola proprio a quei turchi che vi stanno ritornando adesso. Vi stanno ritornato su gentile invito di quell’incredibile governo “riconosciuto dalla comunitá internazionale” che solo i governanti italiani (e Hillary Clinton) hanno preso sul serio; quel governo al-Sarraj che sulla carta avrebbe dovuto essere nostro amico, e che invece ha chiamato in Libia proprio i turchi. Li ha chiamati perché Sarraj, la setta dei Fratelli Musulmani (protettrice di Sarraj) e il dittatore turco Erdoğan (protettore dei Fratelli Musulmani) erano giá d’accordo. Lo sapevano tutti. Lo sapeva la Clinton, lo sapevano la CIA e i servizi americani ufficiali o “coperti”, lo sapevano le banche d’affari che volevano impossessarsi dei miliardi della Central Bank of Libia, lo sapevano le “Sette Sorelle” impazienti di mettere le mani sul petrolio libico, e lo sapevano soprattutto i “pupari”, i cosiddetti filantropi (ma quanto sono buoni!) che hanno inventato le “primavere arabe” per destabilizzare l’intero Medio Oriente.
Lo sapevano tutti che Sarraj era il prestanome dei turchi e dei Fratelli Musulmani, lo sapevano tutti che i nostri alleati della NATO e dell’Unione Europea (ma quanto ci vogliono bene!) erano disposti anche a favorire il ritorno dei turchi in Libia, pur di espellerne l’Italia e di cacciare via l’ENI dal mercato petrolifero di Tripoli. O, meglio, lo sapevano quasi tutti, con la sola eccezione dei governanti italiani.
Abbiamo cominciato con “Re Giorgio” Napolitano che tuonava contro Gheddafi («non gli sará consentito di sparare sul suo popolo») e con un Berlusconi che, senza vergogna, tradiva il dittatore amico e mandava i nostri aerei a bombardarlo. Abbiamo continuato con Renzi, voglioso di giocare ai soldatini e di accettare il ruolo di capo-spedizione della NATO in terra libica (e meno male che non se ne é fatto niente). E adesso siamo al culmine del ridicolo, con il governo di Giuseppi II, che accetta senza neanche protestare di essere sbeffeggiato con l’esclusione dell’Italia dal primo vertice (quello londinese) sulla Libia; e con un ministro degli Esteri come Giggino O’ Guaglione, che sembra essere stato messo a quel posto per una dantesca legge del contrappasso; per essere totalmente digiuno di ogni conoscenza, di ogni esperienza e, soprattutto, di ogni retroterra culturale che possa consentire un approccio realistico al mondo – complicatissimo – della diplomazia internazionale.
Va da se che la “cultura” di cui parlo é “visione”, non sapienza o nozionismo. Al limite (ma proprio al limite) si puó fare il ministro degli Esteri senza sapere che nel 1911-12 l’Italia vinse una guerra contro i turchi e si prese la Libia (e il Dodecanneso). Ma non si puó fare il ministro degli Esteri (né tantomeno il Presidente del Consiglio) ignorando il valore che la Libia ha sempre avuto per l’Italia. Valore che non é solamente affettivo, simbolico; ma che é soprattutto geopolitico e geostrategico.
Quando nel 1911 l’Italia affrontó il rischio di una guerra contro una delle piú temibili “potenze” del tempo, l’Impero Ottomano, lo fece perché era vitale – innanzitutto per la propria difesa – disporre di una “quarta sponda” in Africa, di fronte e a poche braccia di mare dalle coste siciliane. Lo fece per eliminare la presenza ai nostri confini marittimi di una potenza aggressiva come la Turchia. Ma lo fece anche per poter ottenere il controllo del Mediterraneo centrale e della sua costa africana, nel momento in cui gli inglesi dominavano il Mediterraneo orientale (e l’Egitto) ed i francesi il Mediterraneo occidentale (e la Tunisia, l’Algeria, il Marocco). Lo fece – l’Italia – perché era necessario affermare il nostro dominio nel mare che circondava le nostre coste; perché, se non avessimo inserito un cuneo fra il Mediterraneo inglese e quello francese, le flotte di Londra e di Parigi si sarebbero saldate proprio nelle nostre acque, minacciandoci direttamente. Lo fece, lo facemmo perché, se non lo avessimo fatto, l’Inghilterra si sarebbe presa la Cirenaica (unendola all’Egitto) e la Francia si sarebbe presa la Tripolitania (unendola ad Algeria e Tunisia), raggiungendo una frontiera comune fra i loro possedimenti e impedendo, nell’epoca del colonialismo, che l’Italia potesse avere una qualunque presenza coloniale nel Nordafrica.
Ecco, certi singoli fatti un Presidente del Consiglio o un Ministro degli Esteri potrebbe anche non saperli; ma il ruolo dell’Italia, la vocazione dell’Italia, l’interesse dell’Italia dovrebbero assolutamente, indispensabilmente, inderogabilmente conoscerli, avvertirli, “sentirli”; dovrebbero ancora oggi interpretarli, sia pure alla luce di una realtá diversa rispetto a quella di un secolo fa.
Che poi – a ben guardare – la situazione di oggi non differisce poi moltissimo da quella di ieri. Certo, le etichette sono cambiate. Non ci sono piú le colonie, ma le “zone d’influenza”. La Francia domina Tunisia, Algeria e Marocco, come cento anni fa; e come cento anni fa vuole cancellare ogni nostra presenza dal Nordafrica. L’Inghilterra ha perduto il dominio dell’Egitto, ma fino a qualche anno fa (ai tempi dell’Operazione Hitlon per uccidere Gheddafi) trescava ugualmente contro il nostro ruolo a Tripoli e nel Magreb. L’Impero Ottomano non c’é piú, ma c’é una Turchia aggressiva e arrembante, che dichiara apertamente di voler ricostruire l’impero del Sultano (ricordiamoci quello che é successo in Siria l’altro giorno). Ci sono, poi, alcune complicazioni aggiuntive: il petrolio del Mediterraneo orientale, di cui la Turchia di Erdoğan vuole impadronirsi con le buone o con le cattive; e i migranti accampati in Libia, che la Turchia potrebbe utilizzare come un’arma impropria per ricattare l’Europa, come ha fatto con i migranti provenienti dalla Siria.
A fronte di questa situazione, l’Italia é stata ormai privata di ogni ruolo, di ogni voce in capitolo per ció che riguarda la Libia. Non per caso, ma per l’insipienza dei suoi governanti, per la resa a discrezione di fronte ai ricatti dei modesti presidentini francesi degli ultimi anni, per l’obbedienza cieca agli ordini degli Stati Uniti e della NATO (fino al punto di bombardare i nostri amici in Libia), per il conformismo stupido che ci ha portati a sostenere il governo di Sarraj (che non rappresenta nulla neanche a Tripoli) e ad avversare il governo del generale Haftar (l’unico che possa tentare di unificare una Libia che sta andando in pezzi), per la incapacitá di operare concretamente per impedire il gravissimo pericolo di una presenza turca di fronte alle nostre coste.
E adesso, alla conferenza dell’altro giorno in Germania, un Conte sempre piú ignorato, isolato, marginalizzato, tenta di dire qualcosa che possa indurre gli altri a dargli un minimo di ascolto. E butta sul tavolo una disponibilitá dell’Italia (da verificare peró in parlamento) a mandare in Libia un “numero significativo” di suoi soldati per fungere da “forza d’interposizione” fra le parti in lotta.
Allucinante... Gli altri si mettono d’accordo per fregarci, e noi mandiamo i nostri soldati a rischiare la vita per difendere gli interessi di chi vuole cacciarci dalla Libia. Peggio di Giuseppi aveva fatto solo il Cavaliere, che aveva mandato i nostri aerei a bombardare i nostri amici per favorire i nostri nemici.
La veritá é che l’Italia non ha piú una politica estera. Ormai da diversi anni, da quando Moro é stato ucciso e da quando Craxi e Andreotti sono stati eliminati dalla scena politica. Noi avevamo una grande politica estera, tracciata da Enrico Mattei e dall’ENI nel dopoguerra, e poi portata avanti dai governi guidati da una Democrazia Cristiana ancóra dignitosa. Era una politica estera che esaltava il ruolo mediterraneo dell’Italia e che si estrinsecava in una linea filo-araba ardita ma al tempo stesso avveduta, senza venir meno ai doveri di membri dell’Alleanza Atlantica.
Era stato Enrico Mattei a tracciare quella linea, in nome della difesa dei nostri interessi economici e in particolare petroliferi. Linea che era poi proseguita fin quasi alla fine del XX secolo. Fra gli ultimi episodi, ricordo il nostro ruolo forte, fortissimo in Libia, ai tempi dell’operazione Hilton, quando il generale Miceli salvó la vita a Gheddafi e fece fallire il golpe inglese per riportare al potere il fondamentalismo dei Senussi. O il cosiddetto “Lodo Moro”, il patto segreto con Arafat che tenne l’Italia al riparo del terrorismo palestinese negli anni ’70. Lo sgambetto di Craxi ai francesi in Tunisia, che ci consentí di portare al potere il filoitaliano Ben Alí, sovvertendo la tradizione francofila della politica tunisina. O, ancóra, il braccio di ferro che a Sigonella oppose Craxi al Presidente USA Reagan, per onorare il lodo Moro e sottrarre il palestinese Abu Abas alla cattura da parte americana.
Tutto questo – e altro ancóra – fu fatto senza venir meno ai doveri dell’alleanza con gli “occidentali”. Anzi, recando a quella alleanza il valore aggiunto del nostro rapporto privilegiato col mondo arabo. Al punto che, in un dato momento, l’Italia ebbe attribuito un ruolo di guida del “fianco sud” dell’Alleanza Atlantica. Ruolo che ebbe anche una sanzione ufficiale nel 1969, quando il Comando delle forze navali NATO del Sud Europa venne affidato a un italiano, l’ammiraglio Gino Birindelli.
A un certo punto, peró – apro una parentesi – la politica mediterranea di Washington mutó indirizzo, puntando tutte le sue carte su Israele e tralasciando l’Italia. Se il mondo arabo é oggi in agitazione continua, se l’ISIS é stata a un passo dal distruggere Siria e Irak, se la riva sud del Mediterraneo é preda di una destabilizzazione che minaccia di insidiare la pace anche sulla riva nord, se la Turchia maramaldeggia, se la Libia é in fiamme... se tutto questo si é verificato negli ultimi anni, molto probabilmente tutto questo, anche tutto questo é derivato da quella scelta americana di abbandonare il rapporto privilegiato con l’Italia e di sposare la linea diplomatica israeliana.
Chiudo la parentesi e torno ai poblemi dell’oggi. L’Italia deve ritrovare la dignitá della politica e, con essa, riprendere il filo della grande tradizione diplomatica che ha segnato la nostra storia, dal raggiungimento dell’unitá nazionale sin quasi alla fine del Novecento.
Ma soltanto nel contesto generale di un ritorno alla politica, alla grande politica, potrá darsi luogo anche a un ritorno alla grande diplomazia. Intendendo, con questo, non uno sterile esercizio di equilibrismi internazionali, o peggio – come si usa oggi – un vacuo susseguirsi di chiacchierate, passerelle e “colazioni di lavoro”... intendendo una cosa ben diversa: una visione lucida della realtá internazionale, la cognizione precisa di quello che é il nostro interesse nazionale, la difesa dura, senza tentennamenti, senza mezze misure della nostra sicurezza nazionale.
Beninteso, che la politica estera sia strettamente “nazionale”, senza delegare nulla ai “grandi alleati”, senza sposare acriticamente alcuna causa, senza legarci ad alcuna “crociata”, senza farci turlupinare da “primavere arabe” costruite a tavolino, e senza mandare i nostri soldati a morire per interessi che non siano quelli dell’Italia.
Quanto alla situazione in Libia – e concludo – il nostro interesse principale é che i turchi tolgano le tende e che ci sia un governo stabile con cui interloquire. E pazienza se questo governo non dovesse essere quello “riconosciuto dalla comunitá internazionale”... Ce ne faremo una ragione.
Del 03 Febbraio 2020
Allegato Quest'Europa
RALLO - Questa Europa [2a ed].pdf
Note legali - Privacy policy