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Il mondo reale coincide con la realtà empirica?
di
Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio
Le cose che esistono sono le stesse identiche cose che cadono entro la nostra sfera temporale, e non ve ne sono, né possono esservene, altre?
La cultura dominante nel mondo contemporaneo è di stampo sostanzialmente neo-illuminista e neo-positivista, dunque intrisa di materialismo e di meccanicismo, ma non senza abbonanti venature di scetticismo e relativismo, che ne sono, per così dire, il necessario contraltare: è una cultura talmente auto-referenziale e talmente tronfia e chiusa in se stessa, che, non ammettendo alcuna critica vera e sostanziale (che viene immediatamente ridicolizzata o, semplicemente, ignorata), pretende di farsi la critica da se stessa, ovviamente una critica banale e superficiale, per poter meglio ”rispondere” e ribadire le proprie intangibili, inossidabili ragioni.
Questo vale per l’ambito della cultura politica, dove la critica o è politicamente corretta, ovvero talmente addomesticata e resa innocua, da risultare del tutto complementare e funzionale al sistema stesso, oppure non viene ammessa e viene qualificata come antidemocratica, sovversiva e perfino tendenzialmente terroristica, o quasi. Vale anche per l’ambito artistico e letterario, dove si può discettare sulle inezie, sui dettagli, tutt’al più sulle forme, ma non certo avanzare una critica di merito alla bontà di un intero stile, ossia della forma costante che caratterizza gli indirizzi oggi prevalenti, e, naturalmente, gli autori, che si dividono automaticamente (con effetto retroattivo) in “moderni”, dunque bravi, o almeno interessanti, e “non moderni”, perciò meritevoli di qualunque ironia e di qualunque dileggio, e che non vengono presi sul serio, perché privi di “profondità”, “complessità” e “consapevolezza delle aporie del reale”. E infine vale, ovviamente, per l’ambito filosofico, ammesso e non concesso che a un tale ambito corrisponda ancora qualche cosa che si possa definire, anche solo vagamente, come autentica ricerca filosofica: perché qui il conformismo della modernità impazza più che mai, sovrano e sfrenato, e non vi sono boriose assurdità, cervellotiche elucubrazioni, fumisterie pretenziose, che non vengano spacciate per moneta buona, purché rientrino, o siano suscettibili d’essere arruolate, nella grande armata del nichilismo militante, ossia purché professino tutto il disprezzo possibile per “la” verità e si facciano banditrici del nuovo Evangelo delle mille piccole verità parziali e contrastanti, vale a dire del nulla eretto a sistema e al rango di abito mentale.
Orbene: nel panorama della filosofia contemporanea, segnata dal positivismo scientifico e dal positivismo logico, dal “pensiero debole” e della “teologia debole”, dal senso della nausea e dall’essere-per-la-morte, dalla maledizione della libertà e dall’inferno della presenza altrui, dalla stanchezza esistenziale e dal ripudio di qualunque discorso sull’essere, e cioè di qualunque metafisica, la “realtà” viene fatta coincidere con il “reale”, e quest’ultimo viene presentato come l’equivalente della dimensione definibile mediante l’esperienza empirica: il che è una vera e propria tautologia, anche se ciò passa quasi inosservato perché, in un paradigma culturale che si pone come “innovativo” e “realistico” nei confronti del paradigma precedente, accusato di essere “superato” e “metafisico” (come se la metafisica fosse il contrario della cosa reale!), non c’è bisogno di fornire davvero argomenti e ragionamenti: è sufficiente la forza – si fa per dire – della maggioranza, della”pubblica opinione”, del “sentire comune”, senza darsi la pena e il fastidio di confrontarsi realmente con le forme del pensiero che sono state archiviate e rottamate. Insomma, si accetta di discutere solo con chi riconosce, in via preliminare, la giustezza dello stato di cose esistente: e ciò è tanto più tipico di un paradigma “democratico”, proprio perché esso è stato legittimato dal numero, cioè dalla maggioranza; mentre i paradigmi non moderni, che non derivano dal “regno della quantità” (per dirla con René Guénon) si “accontentano” di discutere nel merito della cosa, senza imporre la ghigliottina preventiva della sottomissione ideologica.
Giulio Preti (Pavia, 1911 – Djerba, 1972), un pensatore italiano vicino all’area del positivismo logico, così definiva il rapporto fra la realtà e la realtà empirica (in: G. Preti, «Praxis ed empirismo», Torino, Einaudi, 1957, pp. 98-99):
«Nel complesso […] possiamo dire che “realtà” o “esistenza” è una categoria pseudo-cosale che formalmente e metalinguisticamente si risolve sempre nell’affermazione della verità di una proposizione o insieme di proposizioni. Ma questo fatto si presta a interessanti considerazioni. In primo luogo, a questa: che, come “verità” non è termine univoco, ma è correlativo ai termini di verificazione ammessi in un dato universo di discorso», così anche “esistenza” o “realtà” è correlativo ai vari sensi di “verità”, e quindi ai criteri di verificazione volta per volta impiegati. Tecnicamente, si può dunque dire che tutte le espressioni aventi senso denotano, ossia che tutto ciò che designa denota anche: con il che verrebbe a cadere una delle roccheforti della gnoseologia del “pensiero”. D’altra parte, però, il “denotare” cessa di essere una funzione univoca, poiché l’esistenza del denotato viene ad essere correlativa all’universo di discorso in cui è collocato il simbolo denotante. Così anche “chimera” o “abitanti della Luna” possono, in determinati universi di discorso, diventare simboli denotanti (ossia, correlativamente a determinati universi di discorso si può dire che la chimera o gli abitanti della Luna “esistono”, sono “reali”); e così si può dire che esistono i numeri, che esistono le figure geometriche, gli iperspazi, ecc. Però bisogna stare attenti a non confondere i vari piani in cui viene impiegato questo predicato di esistenza, cioè a non applicare ad un universo di discorso un’esistenza provata in un altro piano. Ogni platonico è d’accordo nel dire che l’esistenza del numero 3 e l’esistenza del mio cane Fuchs sono due realtà ben diverse, e che qui il termine “esistenza” o “realtà” è usato in due sensi ben diversi: ma poi il “trucco” dei platonici di ogni tempo consiste nel dimenticarsi subito di ciò, operando “come se” la realtà del numero fosse qualcosa di simile alla realtà di Fuchs, mentre di fatto la prima è una realtà che diciamo “sintattica”, perché relativa a verità di ordine meramente convenzionale-linguistico (quello che di fatto esiste è il “nome”, con le sue eventuali potenzialità operative), l’altra un’esistenza fattuale, perché relativa verità fattuali (quelli che qui esistono sono dei “fatti” empirico-pratici): la prima è esistenza “matematica”, la seconda “empirica”.»
Come si vede, Preti non ritiene si possa discutere il problema della realtà in se stesso (questa, per carità, sarebbe metafisica: roba d’altri secoli!), ma solo la questione della verità di una determinata proposizione (o insieme di proposizioni) rispetto ad altre. Con il che ci si mette, automaticamente, sul binario di un doppio relativismo: riguardo all’oggetto, che non è più la realtà della cosa, ma la realtà della cosa linguisticamente espressa; e riguardo al linguaggio medesimo mediante cui la si esprime, che non importa più se sia “vero” in quanto conforme all’oggetto, ma che basta sia “vero” rispetto alle categorie della logica formale. Ad esempio, se io affermo che in questo momento il cielo è pieno di stelle, non mi si chiederà se io stia facendo una affermazione vera o falsa, nel senso di corrispondente o meno alla verità, ma, semplicemente, se nella proposizione da me espressa vi siano contraddizioni di ordine logico: e, se non ve ne sono (come in questo caso), allora la mia affermazione diventa automaticamente “vera” (anche se, in questo momento, è mezzogiorno).
Non basta. Secondo Preti, prima di decidere se una proposizione (non: se una cosa) sia vera o falsa, bisogna prima mettersi d’accordo su che cosa si intenda, nel proprio sistema di linguaggio, con una simile espressione. “Esistenza”, “realtà” e “verità” possono essere considerate come espressioni equivalenti, se si conviene che ciò è ammissibile in un determinato universo di significato, e, quindi, in un determinato criterio di verificazione. E la logica conseguenza è che qualsiasi espressione avente un senso, possiede anche un contenuto di “verità”, perché denota qualche cosa, vale a dire che descrive, in maniera logicamente non contraddittoria, e quindi accettabile, un certo oggetto. “Designare” e “denotare” diventano così termini equivalenti: se è possibile designare una cosa mediante il linguaggio, e designarla in maniera logica, e non contraddittoria o confusa, allora quella cosa acquista un senso, un significato, ovviamente nell’ambito logico-linguistico.
La filosofia, a questo punto, si riduce ad analisi logica, e il discorso sull’essere viene sostituito dal discorso sul linguaggio: è reale non ciò che è “reale” in se stesso, ma ciò che lo è per il linguaggio, ossia ciò che può essere logicamente e linguisticamente espresso, “denotato”. È chiaro che, procedendo per questa strada, o meglio, scendo per questa china, si arriva all’assurdo e alla negazione di qualunque principio di verità; Preti lo vede benissimo, e si affretta a precisare che non tutto è vero e reale, quel che si può !denotar” in maniera formalmente logica, ma che esistono differenti “piani” o “universi di pensiero” e che bisogna fare molta attenzione a con confonderli, quando si sta parlando di una determinata cosa.
Bella scoperta. Il problema è che, se tutti gli universi di discorso possiedono una loro logica intrinseca, non si capisce in base a quale criterio veritativo si possa stabilire, se non una gerarchia, quanto meno una distinzione sufficientemente chiara fra l’uno e l’altro. Se tutti sono “veri” in se stessi, purché non contraddittori, che cosa fa sì che determinate proposizioni siano, per così dire, più “vere” di altre, per cui, ad esempio – per attenersi agli esempi che fa il Preti – una chimera o un abitante della Luna sono veri, sì, ma di una verità di pura immaginazione, e dunque meno “reale”, poniamo, di una primula o di una nuvola, le quali, invece, appartengono al mondo reale nel senso di “oggettivo”, “verificabile”, “condiviso da qualunque osservatore”? Se il criterio di verità consiste nella non contraddizione logica, che cosa rende un abitante della Luna meno vero di un abitante della Terra? Non si potrà rispondere che l’abitante della Terra è “reale”, e quindi “vero”, mentre quello della Luna è “irreale”, e quindi “falso”, perché non c’è niente di intrinsecamente contraddittorio nell’idea di un abitante della Luna, così come nella proposizione che lo esprime mediante il linguaggio, e che, esprimendolo, lo denota.
Si direbbe che il Preti sia preso da una sorta d’irritazione repressa per il vicolo cieco in cui ha finito per porsi, seguendo la prospettiva del positivismo logico: e reagisce insolentendo i “platonici”, ossia, probabilmente, quelli che a suo parere sono propensi a una visione idealistica del reale, accusandoli di essere dei falsari del linguaggio: afferma che, in teoria, essi sono d’accordo che l’esistenza di un numero e ‘esistenza di un cane sono due cose diverse, ma subito dopo fingono di dimenticarsene, e, così facendo, contrabbandano una verità puramente logica e matematica come fosse una verità fattuale ed empirica. Ahimè: non sarebbe certo la prima volta che si accusano di malafede intellettuale coloro che non si è in grado di confutare mediante un vero e proprio ragionamento; ma qui la cosa è particolarmente stridente, perché l’accusa di malafede parte da un vessillifero della conoscenza intesa come conoscenza logico-linguistica.
Per favore: ci dicano e ci spieghino, codesti signori, perché mai l’esistenza del cane Fuchs è un “fatto”, mentre quella del numero 3 è solo una “idea”, dato che in base al LORO criterio di verità sono entrambe perfettamente pensabili, esprimibili, logiche e non contraddittorie. Che cosa è, dunque, un “fatto”, e che cosa una “semplice” idea? Se ciascuna cosa che si possa esprimere logicamente è vera, nel senso di reale, all’interno del rispettivo universo concettuale, che cosa autorizza codesti signori a dire che il fatto è più reale dell’idea? Evidentemente, non un fatto, ma, ancora e sempre, una idea, un’altra idea (con buona pace della loro avversione per l’idealismo): quella secondo la quale i fatti vengono PRIMA delle idee, e, per questo, sarebbero più “reali”.
In un certo senso, hanno ragione. Cioè, hanno ragione nel senso che prima viene l’essere, poi il pensiero (e, senza alcun dubbio, questo è l’aspetto assurdo della filosofia idealista: non quella platonica, che è tutt’altro che “idealista”, nel senso di lontana dal “reale”, bensì quella hegeliana); ma hanno torto, clamorosamente torto, quando, poi, si rifiutano di trarne la logica conclusione: che, se si vuole evitare una “regressio ad infinitum”, la “cosa” per eccellenza, la cosa in sé, quella che sostiene tutte le altre cose, sia in senso logico che causale, è l’Essere, il Principio Primo. Essi rifiutano di farlo, perché ammettere l’Essere come fondamento logico del reale, equivale sia a riconoscere un criterio oggettivo di esistenza e di verità, sia a reintrodurre l’aborrita metafisica, e, con essa, una necessaria gerarchia di cose, di pensieri e di valori.
In altre parole: solo chi crede alla metafisica ha il diritto di dire, se proprio vuole dirlo, che l’esistenza del cane Fuchs è più “reale” di quella del numero 3: non colui che riduce la filosofia alla logica del linguaggio. «Per la contradizion che nol consente» (Dante, «Inferno», XXVII, 120)…
Già pubblicato il 18 Giugno 2015
Del 30 Gennaio 2018
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