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PER UNA RICOSTRUZIONE DEL PENSIERO POST-MODERNO
di
Francesco Lamendola
Saggio d’Archivio
Riassunto della conferenza tenuta dal prof. Francesco Lamendola a Treviso, presso l'aula magna della Scuola media "Arturo Martini", il 20 aprile 2007, per l'Associazione Eco-Filosofica e l'Associazione per la Decrescita Sostenibile.
La modernità, il cui avvento è segnato dai due eventi capitali della Rivoluzione scientifica del XVII secolo e da quella industriale del XVIII, è stata caratterizzata da una sistematica distruzione di quella forma di pensiero accogliente ed equanime (che il pedagogista Raffaello Lambruschini definiva "Intelletto d'amore") a favore di un Logos brutalmente strumentale, interessato solo ad ottimizzare il rapporto mezzi-fini e non alla ragionevolezza intrinseca di questi ultimi. Da ciò è conseguito un predominio schiacciante delle filosofie dell'azione su quelle della contemplazione, del fare sul comprendere, del manipolare sull'armonizzare, culminato nella costruzione di un apparato tecno-scientifico che è divenuto norma a se stesso e al quale sono subordinati fini e valori. Il risultato è quel caratteristico miscuglio di strapotenza materiale e di disperato nichilismo esistenziale che si traduce in un necrofilo "cupio dissolvi", ansia di auto-distruzione che sembra possedere la cultura moderna come un'infestazione demoniaca.
A tutto ciò occorre reagire denunciando ogni forma di degradazione del "télos", del fine per cui ogni ente è chiamato all'esistenza, in nome di una visione del mondo e della vita basata sulla irriducibilità degli esseri a cose, delle loro ragioni intrinseche a profitti economici, della loro dignità insopprimibile a valore d'uso. Contro i cattivi maestri di un pessimismo funzionale alle logiche del dominio, dello sfruttamento e dello spreco occorre ricostruire tutte quelle sensibilità, quelle forme di pensiero e quelle pratiche che valorizzano il sì alla vita in tutte le sue forme e che restituiscono agli esseri la loro dimensione spirituale e trascendente, nella prospettiva di un abbraccio cosmico che tutti li comprende e li realizza pienamente, dall'umile filo d'erba alla personalità più creativa, ricca e vigorosa.
[La conferenza è preceduta dalla visone di uno spezzone del film di Akyra Kurosawa Dersu Uzala, del 1975 , premiato al festival di Cannes del 1976, per introdurre la riflessione sui temi del rispetto verso tutti gli enti, della riscoperta di un'anima in ciascuna cosa, e sui valori della sobrietà, della generosità, della necessità di adottare uno stile di vita capace di tradursi in un'impronta ecologica "leggera", ossia nel saper camminare in punta di piedi nella dimora accogliente della Natura, onde serbarla intatta per le generazioni future di tutti i viventi - e non solo degli umani. Al termine della conferenza si è svolto poi un ampio dibattito che ha coinvolto il pubblico].
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L'argomento della nostra conversazione di stasera è: "Per una ricostruzione del pensiero post-moderno". Perché post-moderno, e perché ricostruzione?
Partiamo dalla prima domanda. Post-moderno non per amore delle pretese avanguardie culturali, non perché dopo le meraviglie della modernità si voglia ora andare verso una super-modernità, verso una modernità all'ennesima potenza. Infatti, diciamolo subito, per noi la modernità è una categoria del pensiero che si è caratterizzata, purtroppo, prevalentemente per i suoi aspetti negativi. Quali? Nel mio saggio Francesco Petrarca e lo spirito della modernità ne ho evidenziati particolarmente cinque, che qui riassumo:
"Post-moderno", allora, significa: ciò che dobbiamo creare dopo la stagione nefasta della modernità; ciò che ancora non esiste, ma che deve essere edificato su basi totalmente nuove, che rifiutino le premesse teoriche e pratiche della modernità, che rifiutino l'autoreferenzialità della modernità la quale vorrebbe ergersi a valore, a bene in sé stesso.
Ma perché "ricostruzione"? Forse che il pensiero moderno è stato distrutto? Naturalmente no: il pensiero non si pouò mai distruggere; si può pervertire, non distruggere. E allora? Occorre ricostruirlo perché il pensiero della modernità è stato un pensiero distruttivo, e per troppo tempo noi (come i cortigiani servili della novella di Andersen) abbiamo applaudito il re nudo. È stato necessario che un semplice bambino, nella sua innocenza, esclamasse: "Ma il re è in mutande", perché la verità si facesse palese; prima, tutti giuravano e spergiuravano che il vestito del re era bellissimo e fastosissimo.
Il filosofo francese Paul Ricoeur affermava che, nel 1945, gli Europei hanno affrontato il problema della ricostruzione materiale, ma non di quella spirituale: sottinteso, dopo la tragica esperienza dei totalitarismi e della guerra. Lui si riferiva alla seconda guerra mondiale. Ora, a parte il fatto che molti storici sottolineano che il 1914-1945 fu un unico evento bellico, una vera e propria guerra civile europea, a me pare si debba risalire molto più indietro per individuare il punto a partire dal quale si sono prodotte le rovine spirituali della nostra civiltà. Non la guerra, o le guerre, mondiali del XX secolo, ma per lo meno la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII segna la rottura irreparabile dell'equilibrio fra uomo, mondo e trascendenza che, bene o male, aveva contrassegnato i secoli e i millenni precedenti della storia occidentale. Forse potremmo risalire ancora più indietro; forse potremmo risalire alla nascita stessa della filosofia greca, alla scuola di Mileto - Talete, Anassimandro, Anassimene - come tipico esempio di una concezione secondo la quale si può comprendere la natura mediante la sola indagine razionale. Ciò ha prodotto una scienza senza coscienza che, di razionalità in razionalità, arriva dritto dritto al fungo atomico di Hiroshima; perché, come già ammoniva Platone, la vera saggezza consiste nel conoscere l'uso che si deve fare della conoscenza e dei mezzi di cui si dispone. Infatti, come scrive Nicola Abbagnano, "il fattore decisivo del destino dell'uomo (…) è la volontà umana, aiutata da tutte le forze - immanenti e trascendenti - che possono sorreggerla." Certo, nella storia del pensiero antico i due itinerari - quello di un giusto rapporto Dio-uomo-mondo e quello di un rapporto squilibrato e prevaricatore sfociante nella hybris, nella dismisura e nell'arroganza, si intrecciano continuamente, sicché nessuno dei due occupa interamente l'orizzonte speculativo. Comunque, nella civiltà greca è sempre presente e in agguato la tendenza "prometeica", la tentazione di rubare il fuoco agli dèi per trascendere dai limiti dell'umano e insuperbire oltre misura della propria intelligenza.
Quanto all'altra grande radice della civiltà occidentale, la cultura giudaico-cristiana, anche lì troviamo sempre in agguato una tendenza analoga, quella dell'uomo adamitico che si ritene signore e padrone di tutte le cose, che pensa che l'universo sia stato creato da Dio perché egli vi eserciti una sovranità dispotica e illimitata. La radice di questa tendenza superomistica si trova già nel mito della caduta dei primi uomini, Adamo ed Eva, che rubano il frutto proibito della conoscenza perché non accettano i limiti della propria condizione creaturale e vogliono farsi "simili a Dio". Orbene da queste due tendenze, quella prometeica e quella adamitica (stiamo procedendo per grandissime falcate, a prezzo - inevitabilmente - di qualche semplificazione) trae origine quel rapporto squilibrato e disarmonico fra noi e gli altri enti, quella sfrenata volontà di dominio che culmineranno poi nell'avvento della modernità. La civiltà del Medioevo, nonostante sia stata denigrata abbondantemente a partire dal pregiudizio dei "lumi" del Logos strumentale, è riuscita a conservare un equilibrio complessivo, anche perché si può considerare la filosofia del cristianesimo come un platonismo cristianizzato o anche - secondo la prospettiva da cui guardiamo - come un cristianesimo platonizzante.
L'equilibrio si è rotto irreparabilmente, come si è detto, non col Medioevo cristiano e neanche col Rinascimento, bensì con la cosiddetta Rivoluzione scientifica, tra la fine del 1500 e l'inizio del 1600. Grazie ad essa, l'universo si è ridotto alle dimensioni di un meccanismo descrivibile matematicamente e manipolabile a piacere. Descrivibile matematicamente: Galilei arriva a dire che se l'uomo ha, extensive (cioè quantitativamente) una conoscenza del mondo infinitamente minore di quella divina, tuttavia intensive (qualitativamente) ne ha una conoscenza pari a quella di Dio stesso. Manipolabile a piacere: Francesco Bacone arriva a dire che l'uomo deve torturare la Natura per costringerla a rivelare i suoi segreti (c'è in questo, come nota Remo Bodei, l'idea di una rivincita dell'uomo sulla natura, cui è stato finora soggetto: una volontà di "fargliela pagare"); e Cartesio, affermando che tutti gli enti non-umani sono mera res extensa, nega che essi abbiano valore e dignità intrinseca: un cane, ad es., non è che una sorta di macchina capace di emettere guaiti se viene bastonato, ma incapace di provare sentimenti veri, dolore compreso.
Rotta la diga, è cominciata l'invasione, con un ritmo sempre più incalzante: la Rivoluzione industriale, che ha diffuso l'idea secondo la quale la produzione e il profitto sono legge al divenire storico; la Rivoluzione informatica, secondo la quale il progresso della tecnoscienza è fine legittimo e sufficiente a se stesso; la Rivoluzione bio-genetica, che ha prodotto la reificazione degli esseri come trionfo dei due princìpi precedenti: i dogmi della produzione e dell'idolo tecnoscientifico. Individualismo esasperato, competizione spietata come "normale" stile di vita (homo homini lupus, diceva Hobbes), ricerca esclusiva del massimo profitto: queste le caratteristiche dell'uomo "faustiano", vero campione dello spirito moderno. Chi è Faust, infatti, se non l'uomo che vende - letteralmente - l'anima al diavolo, in cambio del dominio sulle cose? Tramonta definitivamente (con Kant, e più ancora coi suoi successori) il Noumeno e, con esso, la metafisica; tramonta quella Philosphia perennis che era stata il cuore del pensiero antico e anche di quello medioevale (Dante compreso); comincia l'oblio dell'Essere e, parallelamente, l'oblio del sapere come saggezza. Ne derivano una perdita di senso complessivo, una banalizzazione dell'orizzonte esistenziale, una dilagante relativizzazione di tutti i valori.
Ecco, se volessimo scegliere due immagini-simbolo di questo spirito devastante della modernità, l'uno poetico, l'altro pittorico, sceglieremmo La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge e L'urlo di Eduard Munch. Nel primo, si descrive come l'albatro bianchissimo, portatore di venti favorevoli e creatura di buon auspicio, che fiduciosamente accompagnava la nave nella sua rotta e che veniva perfino a mangiare dalle mani degli uomini, un giorno viene ucciso a freddo, senza un perché, dal vecchio marinaio: "With my cross-bow, I shot the Albatross": "con la mia balestra, io ho ucciso l'albatro". Da quel momento hanno inizio le terribili disgrazie che funestano il viaggio della nave. L'altra immagine-simbolo del clima instaurato dalla modernità è il quadro del pittore norvegese Eduard Munch (famoso anche per aver dipinto un celebre ritratto del filosofo Nietzsche), L'urlo, in cui si vede un uomo che, su un ponte cittadino, improvvisamente, in mezzo a una folla anonima di uomini e donne a passeggio, si porta le mani alla testa e spalanca la bocca in un grido disperato, altissimo (anche se forse non gli esce materialmente dalle labbra), terrificante, come se lo avesse assalito una disperazione furiosa e insopportabile, tale da sopraffarlo insieme alla sua stessa ragione. L'opera ben descrive le tre più caratteristiche conseguenze dello spirito della modernità: nausea, necrofilia, disperazione. Nausea: quell'orribile taedium vitae, quel senso di vuoto e di insensatezza di ogni cosa che in maniera superbamente efficace ha descritto Jean-Paul Sartre nel romanzo omonimo (ma che già Leopardi aveva ampiamente descritto e non solo in poesie come il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, ma anche nella riflessione affidata alle pagine dello Zialdone dei pensieri). Necrofilia: perché, se è corretta la distinzione operata da Erich Fromm tra società biofile o amanti della vita e società necrofile o amanti della morte, noi dobbiamo riconoscere che - sotto le apparenze vitalistiche, ottimistiche e perfino gioviali - la modernità è profondamente intrisa di desiderio d'autodistruzione, cupio dissolvi. Non abbiamo visto uno studente di una università statunitense, pochi giorni or sono, uccidere a sangue freddo trentadue persone con le sue stesse mani, e poi togliersi la vita sparandosi in faccia? Disperazione: perché è questa, come ammoniva il grande filosofo Sören Kierkegaard (uno dei più grandi degli ultimi due secoli) la vera malattia mortale dell'uomo: di disperazione si muore. Lo sapete qual è la causa principale di morte fra i giovani, oggi, nella nostra società? Non le "stragi del sabato sera" al ritorno dalle discoteche; non la droga; ma il suicidio. Questo, i mass-media in genere di dimenticano di ricordarcelo. Non è l'angoscia la malattia mortale, al contrario - come diceva Kierkegaard - l'angoscia, per quanto dolorosa, è la nostra grande occasione di libertà, lo stimolo a compiere un salto di qualità da un piano di esistenza inferiore ad uno superiore; è, insomma, una porta spalancata sulla possibilità di conquistare una vera pienezza esistenziale. No, non è l'angoscia la malattia mortale della modernità, bensì la disperazione: e troppe volte l'abbiamo udita sbandierare, con una sorta di degradante auto-compiacimento; e troppo siamo stati acquiescenti - se non addirittura consenzienti - davanti ai cattivi maestri della disperazione sistematica eretta a principio assoluto della vita umana.
Recentemente - consentitemi una nota personale - ho udito il filosofo Umberto Galimberti, a Conegliano, sentenziare davanti a un pubblico strabocchevole, attento ed entusiasta, che noi siamo soltanto il nostro corpo; che nulla esiste oltre al corpo; che l'anima è una sorta di invenzione operata da S. Agostino quattro secoli dopo la nascita del cristianesimo; che, per recuperare un "giusto" rapporto con noi stessi e il mondo, dobbiamo riscoprire la nostra corporeità assoluta. Che - aggiungo io, ma è la logica conseguenza di quanto sopra - il pensiero, la memoria, la creatività, la poesia, la religione, l'arte, sono solamente secrezioni del cervello, come il sudore è una secrezione dell'epidermide e gli escrementi - scusate - sono secrezioni dell'apparato digerente. L'anima non esiste; nemmeno la mente esiste. Strano, perché centinaia di esperienze di persone in stato di anestesia totale, a volte perfino persone cieche dalla nascita (vedi Larry Dossey, Alla ricerca dell'anima, Sperling & Kupfer, 1991) hanno saputo descrivere, al risveglio, tutto quel che accadeva intorno a loro, in ogni particolare; addirittura, quel che accadeva in un'altra stanza; il che indurrebbe a credere che non solo una mente esiste, dopotutto (e forse anche un'anima!), ma che essa è non localizzata. In altre parole, che il cervello non è l'organo della nostra conoscenza del mondo, ma, casomai, solo uno strumento; ma che la nostra coscienza può - in circostanze particolari - attingere direttamente alla sorgente di ogni conoscenza della realtà. Anima mundi, chiamavano i ciò i maghi-scienziati del Rinascimento (prima del malaugurato divorzio fra scienza e spiritualità operato dalla Rivoluzione scientifica del XVII secolo): la nostra mente individuale non è che una parte della grande mente universale; la nostra anima individuale non è che apparenza illusoria di separatezza dall'unica Anima universale.
Carl Gustav Jung, fra i moderni, è stato uno di quelli che più si sono riavvicinati a tale concezione del rapporto fra l'uomo e il mondo (e fra l'uomo e Dio); e che altro è la concezione dell'Inconscio Collettivo, se non una grande Anima del Mondo donde, mediante simboli, a noi vengono le conoscenze profonde delle cose, quelle che non possiamo né potremmo attingervi con il Logos strumentale, che si avvicina ad esse senza amore, senza partecipazione, senza umiltà e senza saggezza? Ecco dunque perché tutto il nostro preteso "sapere" di figli della modernità è, in effetti, un non-sapere (come ben aveva visto Karl Jaspers):
1) perché crediamo di poter conoscere senza partecipare alle cose;
2) perché tendiamo al possesso e non all'amore del sapere;
3) perché il pensiero razionale, ignorando le istanze del profondo, tradisce quell'intima ansia di redenzione che è all'origine del desiderio di conoscere e ne costituisce l'autentico significato.
Sia detto fra parentesi, il punto 1 è stato confermato dalle recenti acquisizioni della fisica delle particella sub-atomiche: noi oggi sappiamo che, a livello dei quanti, è impossibile osservare un fenomeno fisico (ad es., calcolare la posizione di un elettrone che si muove intorno al nucleo atomico) senza con ciò modificarlo. Questo non fa che confermare l'intima persuasione degli antichi filosofi orientali, spec. taoisti: che non è possibile intervenire in modo locale sulla realtà, senza provocare ripercussioni fino al lato opposto del mondo. Visione olistica della realtà: la realtà è un tutto armoniosamente correlato; di contro alla visione riduzionistica, propria dei moderni, secondo la quale si può agire localmente senza alcun riguardo al tutto. Un tipico esempio ne è la medicina occidentale moderna, per la quale il corpo del paziente non è che una somma di organi manipolabili indipendentemente l'uno dall'altro. Ciò è stato favorito anche dallo strapotere che alla scienza medica è stato accordato dalla società moderna, complice una sorta di pigrizia e di disinteresse nei confronti del nostro corpo e della nostra salute; e ne è conseguita quella "medicalizzazione della società" contro cui insorgeva Ivan Illich.
Qualcuno sobbalzerà a una tale affermazione: come, pigrizia e disinteresse nei confronti del corpo, se mai come oggi il corpo è stato curato e vezzeggiato, adornato e reso artificiale dalle pratiche ginniche, dalle lampade abbronzanti, dai cosmetici, dalla chirurgia estetica! Ma a ben guardare, questa è solo apparenza. Ci si è presi cura dell'esteriorità del corpo, per farne un oggetto del desiderio sessuale; ma non della sua salute e dei suoi bisogni veri. Per fare quest'ultima cosa, bisognerebbe anzitutto saperlo ascoltare: e chi ha tempo per ascoltare? Poi, sarebbe necessario ripensare l'alimentazione, e smetterla di avvelenarlo con i prodotti di un'industria alimentare che sono quanto di più dannoso ed esiziale si possa immaginare. Invece la contraddizione è proprio questa: si trova il tempo (e il denaro) per costruirsi dei bei muscoli grazie agli attrezzi della palestra; non si trova né il tempo (né il denaro) per alimentarsi in modo sano, per fare del sano moto quotidiano, per praticare una corretta respirazione, ecc.
Dicevamo che il pensiero moderno è stato, nella modernità, prevalentemente distruttivo. Vogliamo fare qualche esempio, limitandoci alle correnti filosofiche principali del XX secolo.
Queste sono state le correnti di pensiero più apprezzate e più seguite nel XX secolo: correnti di pensiero che hanno diffuso ed aggravato disorientamento, ansia, sfiducia, pessimismo e nichilismo. E la cosa più bella è che questi cattivi maestri sono stati percepiti (e sono stati tanto abili da presentarsi) come campioni della libertà di pensiero, del non-conformismo, mentre non han fatto altro che ripetere fino alla noia ciò che le masse, confuse e ipnotizzate, volevano sentirsi dire, cavalcando le mode più effimere, più superficiali, più gregarie (si pensi allo stile degli ambienti "esistenzialisti" parigini degli anni '50 del Novecento). Il culmine - non cronologico, ma ideale - del nichilismo e del cupio dissolvi del pensiero moderno è stato storicamente rappresentato dalla filosofia di Eduard von Hartmann, il quale - riprendendo elementi della concezione di Schopenhauer - prospettava la necessità di liberarsi dal male dell'esistenza inerente alla volontà di vivere, mediante una soppressione cosciente di tale volontà e quindi una sorta di suicidio cosmico, che avrebbe reso possibile il passaggio dell'intera realtà esistente nel piano del Nirvana.
Per contro, sono rimaste poco o niente ascoltate le voci veramente anti-conformiste rispetto a questo clima nichilistico prevalente, voci tra loro anche assai diverse, ma tutte caratterizzate da un virile e coerente sforzo di ripristinare le coordinate di una giusto rapporto fra l'uomo, Dio e il mondo: dai personalisti (Emmanuel Mounier, Luigi Stefanini), alla filosofia dei valori (Max Scheler), al realismo ontologico (Nicolai Hartmann, da non confondere con Eduard von Hartmann citato poc'anzi), alla concezione cosmoteandrica di Raimon Panikkar, recentemente scomparso. Questi ha sviluppato una filosofia "relazionale" (o, appunto, cosmoteandrica) della realtà, mutuata dalla filosofia del Vedanta - una delle sei scuole "ortodosse" del pensiero indiano - e, precisamente, dall'Advaita Vedanta, cioè del Vedanta non duale. È, quindi, una concezione che rifiuta sia il monismo sia il dualismo, in nome di una interdipendenza fra Dio, l'uomo e il mondo. Preso a sé, ciascuno di questi termini è una semplice astrazione della nostra mente: Dio, uomo e mondo ricevono consistenza precisamente dal fatto di essere strettamente correlati e interdipendenti. Si noti che una tale concezione rimuove alla radice la dicotomia fra il materiale e lo spirituale; fra l'interno e l'esterno; fra il secolare e il sacro; fra il temporale e l'eterno.
Viceversa, dove ci hanno portato i cattivi maestri della nausea, della necrofilia e della disperazione? Prendiamo il suicidio: un rapido confronto con l'antichità ci mostra chiaramente quanto esso sia proliferato e come sia stato accettato come una pratica quasi "normale" nella società moderna, basata sull'idea che la vita è nostra e che possiamo farne quel che vogliamo. Nell'antichità greco-romana il suicidio si riteneva ammissibile nei seguenti casi:
Il suicidio come esito della disperazione individuale era invece piuttosto raro (l'esempio classico è quello di Giuda dopo il tradimento di Cristo; ma qui siamo fuori dell'ambito culturale greco-romano); mentre il suicidio come esito di una pena d'amore era piuttosto compatito che accettato (vedi il caso di Didone nel IV libro dell'Eneide di Virgilio). Nel complesso, comunque, si può dire che il suicidio era una pratica rara e rigidamente codificata; costituiva una risposta assolutamente eccezionale a circostanze straordinarie. È appena il caso di ricordare che nella civiltà medioevale vigeva una grave condanna a carico dei suicidi (nella Divina Commedia sono trasformati in alberi contorti di una orribile foresta); l'atto del togliersi la vita era interdetto dal timore di quella che S. Francesco, nel Cantico delle creature, chiama la "morte secunda", cioè la morte dell'anima, infinitamente più terribile di quella del corpo.
Ben diversa è la situazione nella società moderna. Partiamo dalle opere letterarie, che sono un buon indicatore di come una data società percepisce i fenomeni di costume e di come si rapporta di fronte ai problemi morali che essi eventualmente sollevano. Nel romanzo ottocentesco (i cui limiti cronologici vanno dalla fine del Settecento ai primi del Novecento: diciamo dalla Rivoluzione francese alla prima guerra mondiale), i suicidi fioccano come la grandine: dal Werther di Goethe al Martin Eden di Jack London, passando attraverso l'Ortis di Ugo Foscolo, L'ultimo canto di Saffo di Giacomo Leopardi, Anna Karenina di Lev Tolstoj, I Dèmoni di Fëdor Dostojevskij, Thérése Raquin di Émile Zola e Una vita di Italo Svevo. Si dirà che questa è soltanto letteratura (eppure la pubblicazione dell'Ortis fu accompagnata, com'è noto, da un'epidemia di suicidi “veri” fra i giovani lettori del romanzo foscoliano).
Allora passiamo alla vita "vera", limitando lo sguardo agli intellettuali, scrittori, artisti, poeti, filosofi o ad altri personaggi a vario titolo famosi: dobbiamo fare i nomi di Gérard de Nerval, Vincent Van Gogh, Heinrich von Kleist (doppio suicidio, con la fidanzata); Jack London (al colmo del successo, come il suo personaggio Martin Eden), Carlo Michelstaedter (giovanissimo), Emilio Salgari (proprio lui, il creatore di Sandokan), Sergej Esenin (forse il più grande poeta russo del Novecento), Vladimìr Majakovskij, Stefan Zweig, Walter Benjamin, Cesare Pavese, Ernest Hemingway, Primo Levi. E ancora: il capitano di vascello Fitz Roy (quello del Beagle, la nave di Darwin); l'esploratore Giacomo Bove; il generale Boulanger, aspirante dominatore della politica francese; Ludwig di Baviera e Rodolfo d'Asburgo (altro doppio suicidio, con l'amante Maria Vetsera); il cantautore LuigiTenco; l'attrice Marilyn Monroe; lo scrittore Yukio Mishima; il fisico Ettore Majorana (se non suicidio fisico, suicidio simbolico); il cantante Kurt Kobain; l'attore Luigi Vannucchi; il figlio dell'avv. Agnelli; la cantante Dalida. È un elenco largamente incompleto, che potrebbe arrivare fino ai terroristi suicidi dei nostri giorni, seguaci della filosofia nichilistica del "perisca Sansone con tutti i Filistei". Del resto, occorre ricordare che la modernità è preannunciata dai suicidi in massa dei pacifici Arawak e Taìnos delle isole di Cuba ed Hispaniola (odierna Haiti), determinati a morire piuttosto che vivere sotto l'intollerabile giogo dei conquistadores; e culmina col suicidio di Hitler (ancora un doppio suicidio, con la moglie Eva Braun) e di Goebbels (che, con la moglie, avvelena i suoi numerosi figlioletti) nell'atmosfera funebre e allucinata del bunker di Berlino, simile a quella del wagneriano Crepuscolo degli dèi, sulle rovine - materiali e spirituali - di un'Europa letteralmente distrutta da una guerra come non se n'erano mai vedute prima? Chi semina vento, raccoglie tempesta - dice il proverbio; e per troppo tempo la cultura moderna ha seminato disperazione a piene mani.
Ora, se gli scrittori e, in genere, gli artisti, possono essere considerati dei testimoni estremamente sensibili della crisi del proprio tempo, e quindi vittime anch'essi di una debolezza del pensiero, diverso è il discorso per i filosofi. Questi ultimi, infatti, hanno una precisa responsabilità negli orientamenti culturali ed etici della società: loro funzione è l'esercizio del pensiero; e non può certo dirsi indifferente l'uso che essi fanno del potere o, se si preferisce, della risonanza culturale di cui dispongono (ma a volte è potere vero e proprio: vedi la "tirannia" culturale esercitata per mezzo secolo da Benedetto Croce in Italia: le sue stroncature e le sue approvazioni erano sentenze di vita o di morte per i libri degli altri pensatori). I filosofi dovrebbero sempre porsi il problema degli effetti che le loro teorie possono produrre nei lettori; non certo nel senso di auto-censurarsi, ma in quello di essere prudenti e di evitare pericolosi compiacimenti nichilistici e ultra-pessimistici.
Ci avviamo a concludere. Ma prima, vogliamo ricapitolare dieci punti nodali caratterizzanti la distorsione del rapporto armonioso uomo-mondo attuata dalla modernità, e le possibili "risposte" costruttive che dovremmo sforzarci di dare a ciascuno di essi, al fine di recuperare tale rapporto.
Già pubblicato su Arianna Editrice il 24/04/2007
Del 09 Aprile 2018
Allegato Pdf
Per una ricostruzione del pensiero post-moderno.pdf
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