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Il sogno del cadetto Biegler prima di Budapest
di
Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio
La lunga tradotta militare procede lentamente, così lentamente che pare non dover arrivare mai, lungo le pianure del Burgenland e dell’Ungheria occidentale, carica di soldati diretti al fronte dei Carpazi, nella primavera del 1915. Ciascuno passa il tempo come può: chi ascoltando o raccontando storie, chi mangiando e bevendo, chi giocando alle carte. Stiamo parlando, naturalmente, del capolavoro di Jaroslav Hašek, «Il buon soldato Sc’veik», pubblicato a Praga fra il 1921 e il 1923 e completato dall’amico Karel Vanek, per la morte improvvisa dell’autore, stroncato dalla tubercolosi ma, più ancora, dalla vita zingaresca e dalle formidabili bevute di birra.
Un bel po’ dopo aver lasciato Bruck sulla Leitha, e assai prima di giungere alla stazione di Budapest, il capitano Sàgner scopre il manoscritto in cui un giovanissimo cadetto, Biegler, che si è arruolato pieno di entusiasmo, ha descritto le più famose battaglie sostenute dall’esercito austriaco nel corso dei secoli. Al capitano, quell’aspirante ufficiale non piace per niente: sfoglia il manoscritto, fa alcune domande cariche d’ironia al suo autore, infine gli somministra una terribile lavata di capo: gli ricorda che, pur non avendo alcun diritto di fregiarsi già del titolo di “ufficiale”, prima ancora di arrivare a Budapest, si sarà ormai immaginato d’essere diventato feld-maresciallo; che fino a poche settimane prima non era che un qualsiasi concia-pelli, e ora si atteggia a genio incompreso della strategia militare; da ultimo lo affida alle cure del tenente Lukàš (di cui è attendente il buon soldato Sc’veik, protagonista del romanzo), col preciso incarico di scozzonarlo e di mandarlo in primissima linea non appena si giungerà allo scontro col nemico, tanto per insegnargli un poco a stare al suo posto.
Umiliato nel profondo, a stento il cadetto Biegler si rimangia le lacrime, fa il saluto militare e si allontana verso il suo scompartimento; legge, soffiandosi il naso, le commoventi pagine del libro del professor Udo Kraft, «Autoeducazione alla morte per l’imperatore»; indi si sbafa, per colmare le proprie carenze affettive, una enorme quantità di pasticcini alla crema, preparatigli dalla mamma. Gravato da un improvviso, lancinante malessere, intestinale corre alla ritirata e si pulisce, piangendo, una ad una, con le pagine che viene strappando sulle celebri battaglie dell’esercito austriaco e che, profanate, volano malinconicamente sui binari, dietro alla tradotta in corsa. Infine, sazio di pianto, si ubriaca e si affaccia al finestrino, gridando frasi bellicose, per poi addormentarsi e fare uno stranissimo sogno.
Gli sembra di essere diventato un generale, decorato con la croce di ferro, e di essere diretto in automobile al quartier generale dell’armata; ma l’automobile è priva della parte posteriore, forse asportata da un obice, e procede non sulla terra, ma in cielo, sfiorando pianeti e satelliti. Evidentemente l’eroico Biegler è caduto sul campo del dovere e ora la patria, riconoscente, si appresta a conferirgli una qualche alta onorificenza alla memoria. L’autista, però, fatica ad aprirsi la strada davanti ai cancelli, perché il cortile è ingombro di feriti e di mutilati. Poi, entrato nel quartier generale, Biegler si rende conto che dovrà presentarsi a rapporto da Domineddio in persona, e che si trova, chissà perché, in stato d’arresto: alle pareti sono appesi i severi ritratti dell’imperatore Franz Josef e del suo collega germanico Wilhelm II, del generalissimo Conrad, capo di Stato maggiore dell’esercito, dell’arciduca Friedrich, comandante in capo nominale, del generale Dankl, vincitore della battaglia di Krasnik (cfr. il nostro precedente articolo: «Nostalgia della vecchia Austria: Viktor Dankl von Krasnik, il generale che non amava Hitler», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 13/07/2010).
Le cose si mettono subito male: Domineddio è corrucciato, lo rimprovera aspramente per aver usurpato un grado che non gli compete e non accetta spiegazioni di sorta, mentre Biegler, balbettante, insiste nel vano tentativo di giustificarsi; allora Domineddio, persa del tutto la pazienza, ordina a due soldati-angeli di portarlo via e di scaraventarlo nella latrina.
A questo punto il sogno, o piuttosto l’incubo, dell’ambizioso cadetto, sta volgendo ormai alla fine: la puzza che gli sembra di sentire, è quella che lui stesso produce, facendosela nei pantaloni, con gran disgusto del suo attendente e di un altro soldato, i quali, teoricamente, hanno l’incarico di accudirlo e, invece, sono più che mai impegnati nel gioco delle carte.
«Sen Kadeta Bieglera pred Budapešti»: «Il sogno del cadetto Biegler prima di Budapest» è il titolo del divertente episodio contenuto nella terza parte del famoso libro di Jaroslav Hašek «Il buon soldato Sc’veik» (titolo originale: «Osudy dobrého vojaka Švejka», traduzione dal ceco di Renato Poggioli e Bruno Meriggi, Milano, Feltrinelli, 1961, 1968, pp. 553-556):
«… Alla pota del cielo lasciavano entrare soltanto con una parola d’ordine che venne subito in mente al generale Biegler: “Für Gott und Kaiser”. L’automobile fece il suo ingresso nel paradiso. “Signor ufficiale” – disse un ufficiale-angelo fornito di ali – quando transitarono davanti a una caserma con reclute-angeli – “deve presentarsi al comando supremo”.
Proseguirono fiancheggiando una piazza d’armi, tutta formicolante di reclute-angeli che imparavano a gridare: “Alleluia”.
Passarono accanto a un gruppetto di persone, dove un caporale-angelo dai capelli rossicci stava proprio in quel momento dando una lavata di capo a un babbeo di recluta-angelo, cui affibbiava pugni in pancia, tonando: “Apri meglio quel tuo grugno, maiale di Betlemme!è così che si esclama: Alleluia? Sembra quasi che tu abbia un gnocco nel becco. Vorrei proprio sapere chi è quel somaro che t’ha fatto entrare qui in paradiso, bestione! Prova ancora una volta… Hlahlehluhia? Chi sa come ti viene in mente di parlare col naso pure qui in paradiso, bestia…Prova ancora una volta, cedro del Libano!”.
Continuarono ad andare avanti, e per parecchio tempo si sentirono ancora, alle loro spalle, i penosi mugolii dell’angelo-recluta che parlava col naso: “Hla-hle-hlu-hiaa”, e le grida dell’angelo-caporale: “Al-le-lu-iaa, al-le-lu-iaa”, bue del Giordano!”.
Poi un enorme splendore su un grande edificio simile a una caserma della Vergine Maria di Ceské Budejovice, con sopra due aeroplani, uno al lato sinistro e uno a quello destro, e nel centro, in mezzo a loro, un gigantesco telone disteso con una scritta a caratteri cubitali:
“K.U.K. GOTTES HAUPTQUARTIER”.
Accolsero il generale Biegler, quando egli scese giù dall’automobile, due angeli indossanti la gendarmeria di linea, i quali lo presero per il colletto e lo fecero entrare nell’edificio, portandolo poi su in alto, al primo piano. “Si comporti a modo davanti a Dominiddio”, gli dissero ancora quando furono sopra, davanti ad una porta per la quale lo fecero passare. In mezzo alla stanza, alle cui pareti stavano appesi i ritratti di Francesco Giuseppe e di Guglielmo, dell’erede al trono Carlo Francesco Giuseppe, del generale Viktor Dankl, dell’arciduca Federico, e del capo di stato maggiore generale, Konrad von Hötzendorf, era in piedi Dominidio.
“Cadetto Biegler” disse Dominiddio con tono energico – non mi riconosce? Sono il suo ex capitano Sàgner dell’undicesima Marschkompanie”
Biegler restò di stucco.
“Cadetto Biegler”, continuò Dominiddio “con quale diritto si è appropriato del titolo di maggior generale? Con quale diritto, cadetto Biegler, è passato con la macchina dello stato maggiore sulla strada attorniata dalle posizioni avversarie?”
“Faccio rispettosamente notare…”
“Chiuda il becco, cadetto Biegler, quando parla con lei Dominiddio”.
“Faccio rispettosamente notare”, cominciò a balbettare Biegler una seconda volta.
“Allora lei non vuol tenere il becco chiuso?”, prese a gridargli contro Dominiddio, il quale aprì la porta ed esclamò: “Due angeli qui!”
Entrarono due angeli coi fucili a bracci’arm sulla spalla sinistra. Biegler riconobbe in essi Matušic e Batzer [cioè i due soldati che siedono, giocando a carte, nel suo scompartimento].
Dalla bocca di Dominiddio risuonò infine un comando: “Buttatelo nella latrina!”
Il cadetto Biegler cadde in qualche posto, ammorbato da una terribile puzza.»
In questo brano del romanzo di Jaroslav Hašek compaiono quasi tutti gli elementi che caratterizzano il romanzo «Il buon soldato Sc’veik»: dall’ironia graffiante alla fantasia sbrigliata, dal naturalismo surrealista alla vena iperrealista che giunge fino all’espressionismo più scatenato e alla sottile, impalpabile malinconia di matrice simbolista: non per nulla uno dei più grandi interpreti del capolavoro di Hašek, il maestro del film d’animazione cecoslovacco Jiri Trnka, ha girato anche una superba versione del capolavoro shakespeariano «Sogno d’una notte di mezza estate» (composto verso il 1595), accomunando, in un certo senso, e contro le interpretazioni banalmente correnti, le due opere in apparenza così diverse per prospettiva e clima spirituale, ma forse così vicine e così simili nella loro essenza più profonda.
Ma che cosa vi può essere in comune fra due opere così diverse, così lontane nel tempo e nello spazio, come il romanzo, irriverente e dissacrante e nondimeno, a suo modo, malinconico, dello scrittore praghese che visse il dramma della Prima guerra mondiale sul fronte orientale e dello sfacelo dell’esercito e dell’Impero asburgico, e la brillante, e insieme malinconica commedia di Shakespeare, soffusa di poesia e d’impalpabili spunti filosofici (cfr. il nostro precedente articolo: «Malinconia e platonismo nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 28/05/2007).
La malinconia, appunto: dietro il sorriso dell’autore, il lettore scopre ben presto una ruga pensosa sulla sua fronte; e, nello stesso tempo, l’elemento onirico, la dimensione del sogno, che trascende la realtà immediata e proietta le vicende sulla soglia d’uno spazio sconosciuto e affascinante, sospeso a metà strada fra il nostro mondo e un universo parallelo, ove scopriamo, non senza sorpresa, che la trama della realtà, che noi credevamo solida e certa, è intessuta, in effetti, di una sostanza così sottile e quasi evanescente, come quella di cui sono fatti i sogni. E fra il cadetto Biegler, petulante, ingenuo, vanitoso e insopportabile, ma infine anche patetico, che sogna la gloria immortale sui campi di battaglia ed è pronto a immolare la sua stessa vita, per la patria e per l’imperatore, e i grotteschi artigiani che la notte, in un boschetto fuori di Atene, provano e riprovano, con esiti involontariamente esilaranti, la tragedia di Piramo e Tisbe, per allietare le prossime nozze del re Teseo e della regina Ippolita, la parentela appare più che evidente.
Ancora più evidente è la parentela che esiste fra il cadetto Biegler, che finisce per farsela nei calzoni in seguito a una indigestione di paste alla crema, cui si sommano gli effetti di una sbornia micidiale, il tutto per dimenticare la tremenda umiliazione inflittagli da un superiore incattivito dalla sua incredibile superficialità e presunzione, proprio mentre sognava di presentarsi al cospetto di Domineddio per ricevere il premio di una azione eroica in battaglia, e subisce invece una memorabile lavata di capo, e, in particolare, l’artigiano Bottom, attore dilettante, incredibilmente pasticcione e vanaglorioso, che, per le arti di Puck, non riesce più a togliersi di dosso il costume di scena e la cui testa diviene una vera testa d’asino, della quale s’innamora la principessa delle fate, Titania, a causa della viola del pensiero spremutale sugli occhi dal malizioso Puck, servitore del re Oberon. A ciascuno il suo sogno, dunque; e a ciascuno il suo premio – si fa per dire.
Se la vita è sogno, come pensava Pedro Calderon de la Barca, allora ciascun essere umano la sogna secondo le proprie inclinazioni, afferrato dai propri fantasmi, trascinato dai propri miraggi, sedotto dalle proprie allucinazioni: chi insegue la gloria imperitura di un assalto alla baionetta, alla testa del proprio plotone, per strappare la vittoria sul nemico e divenire famoso presso i posteri, sia pure al prezzo della vita; e chi scambia per omaggio dovuto le dolcissime frasi d’amore di una principessa che è caduta vittima, a sua volta, d’un perfido incantesimo, e le permette di carezzargli l’ispida testa d’asino, gloriandosene, come se fosse la cosa più naturale del mondo. La vita sarebbe davvero una cosa buffa, se i nostri sogni potessero essere visti dall’esterno e rivelare le nostre segrete illusioni. È una fortuna che ciò non avvenga. Ma gli scrittori sanno penetrare perfino in quel mondo segreto…
Già pubblicato il 15 Luglio 2015
Del 05 Febbraio 2018
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