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È sospeso tra fantastico e reale il mondo senza tempo di Mihail Sadoveanu
di
Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio
Che mondo è quello dello scrittore romeno Mihail Sadoveanu (Pascani, Moldavia, 1880 – Bucarest, 1961), uno dei massimi epigoni del seminatorismo e del poporansimo e, in assoluto, uno dei più illustri scrittori della letteratura romena contemporanea?
Un mondo “magico”, senza tempo, sospeso tra la dimensione del fantastico e quella del reale; un mondo favoloso, mitico, primordiale, coperto di foreste e popolato da una umanità “ingenua”, primitiva; un mondo che affonda le radici in una rete di tradizioni antichissime, di credenze, di codici d’onore che rimontano a epoche di cui s’è persa la memoria.
In questo senso, Sadoveanu si può considerare non tanto come uno scrittore pre-moderno (è stato osservato che perfino le sue novelle e i suoi romanzi d’ambiente, raramente hanno per protagonista il contadino, ma più spesso il boscaiolo, il pastore, o perfino il brigante), quanto come uno scrittore intenzionalmente, deliberatamene anti-moderno. Egli non ha solo un mondo al tramonto da cantare, con le sue usanze e le sue credenze, con i suoi valori e la sua poesia – come avviene nel Verga de «I Malavoglia», tanto per fare un non inutile confronto, anche cronologico, con il massimo dei nostri scrittori veristi -, ma in quel mondo antico e sempre attuale egli crede ancora, con fede intatta: crede perché non riesce a immaginare, né potrebbe immaginare, di vivere in un mondo diverso da quello, cioè nel mondo impersonale e artificiale della modernità.
E tuttavia, occorre precisare: l’antimodernismo di Sadoveanu, il suo fiero tradizionalismo, non hanno niente di amaro e di polemico – anche se nei suoi personaggi “cittadini” si può cogliere una nota di scarsa simpatia umana -, e questo proprio per la fede che continua a nutrire nel mondo dei padri, che, per lui, si ricongiunge naturalmente a quello presente. Non riesce a vedere una frattura nemmeno fra la società romena d’anteguerra e quella dominata dal regime comunista importato dai Sovietici; non riesce a vedere dei nemici neppure in questi ultimi, anzi, li vede come dei liberatori (ad esempio, nel romanzo «Mitrea Cocor») che giungono, benefici, da Oriente, come da Oriente sorge il Sole a illuminare il mondo. Povero Sadoveanu: che candore, che immensa capacità di credere nella bontà innata del suo popolo e nella bontà “naturale” della storia umana: quasi un Rousseau del XX secolo, con la sua diffidenza istintiva verso la “civiltà” e la sua fede incrollabile nella “natura”.
Perché di candore, senza dubbio, si è trattato, e non di opportunismo: che cosa ci avrebbe guadagnato, il vecchio scrittore, che aveva già dato alle stampe qualcosa come un centinaio di romanzi; che cosa ci avrebbe guadagnato, questo Balzac della letteratura romena, vero patriarca della cultura nazionale, a simulare un entusiasmo che non provava? Vero è che, a differenza di un Mircea Eliade o di un Émile Cioran, noi non possiamo immaginarci un Sadoveanu che se ne va a vivere all’estero, abbandonando per sempre la terra dei suoi padri: sarebbe morto di nostalgia. Volle, pertanto, illudersi che il comunismo non avrebbe sconvolto i valori e i modi di vivere del mondo rurale romeno, anzi, che li avrebbe difesi contro le ombre minacciose della modernità? È possibile. Mite e onesto è l’animo dello scrittore Sadoveanu: in esso non c’è spazio per il rancore, per l’invettiva, per la malvagità deliberata. Il mondo che egli rappresenta è fondato sui solidi valori della civiltà contadina moldava, uniti a un sentimento romantico della natura, vista come inesauribile, ma anche misteriosa, fonte di poesia.
Ma è anche un mondo sereno, quello descritto da Sadoveanu?
Ecco una bella domanda: alcuni critici lo affermano, altri lo negano; e non è questione di poco conto. Quando ci si pone di fronte a un autore, vi sono poche domande più legittime e pertinenti di questa: è un mondo sereno, quello che egli ci mostra? E, se non lo è, ciò deriva da un pessimismo della ragione o da una istintiva, originaria mancanza di fiducia nella bontà delle cose e nel valore profondo della vita?
Ci piace riportare e mettere a confronto gli opposti pareri di due insigni studiosi di letteratura romena, Ramiro Ortiz e Gino Lupi. Cominciamo dal primo (R. Ortiz, «Letteratura romena», Roma, Signorelli, 1941, pp. 147-8):
«Mihail Sadoveanu […] ci appare come un fiume dalle acque abbondanti, ma calme e serene, che rispecchiano azzurro di cieli e verde di boschi. Romanziere fecondissimo, interprete perfetto dell’anima popolare moldava, così spontanea e primitiva da confondersi quasi col paesaggio, sembra impersonale, così’ nella sua prosa come nella sua figura massiccia e bonaria di gigante mite e sognatore, il tipo del patriarca primitivo, cantore eponimo della sua terra e della sua razza. I suoi romanzi storici, pieni di vigore e di colore, sono gustatissimi dai Romeni. A me sembrano inferiori a quelli d’ambiente Finché il Sadoveanu ci parla di contadini, pastori, cacciatori, briganti, piccoli proprietari di campagna, piloti di zattere sulle acque spumanti della Bistritza, preti di villaggio e monaci (mezzo contadini anch’essi) di piccoli monasteri sperduti nel verde dei boschi, è addirittura insuperabile. Meno bene riesce nel ridar l’animo della piccola borghesia moderna, che, probabilmente, gli è antipatica. Ma dove riesce grande addirittura, di una grandezza che raggiunge la solennità austera dell’epica, è nell’interpretazione sentimentale del paesaggio romeno. “Nel bosco di Pietriscior”, dove si descrive l’agonia di un capriolo nella quiete tragica del tramonto, rotta soltanto dal gorgogliar dell’acqua tra le pietre, mentre nel cielo cominciano a spuntar timidamente le stelle, è un piccolo capolavoro degno di appartenere alla letteratura mondiale, non solo a quella romena.»
Ed ora il secondo (G. Lupi, «La letteratura romena», Firenze, Sansoni/Accademia, 1968, pp. 347-8):
«Mihail Sadoveanu […], pur ricordando i prosatori russi, presenta personaggi quasi simbolici, lineari ma ricchi di forza espressiva. I romanzi di ambiente provinciale “Fiore appassito”, 1906; “La fata morgana”, 1911, ecc.) sono mediocri e convenzionali, la vita locale vi è rappresentata più esteriormente che nello spirito, i personaggi sono scialbi e la costruzione è poco abile. Quando però Sadoveanu, limitato quasi esclusivamente per temperamento e per cultura all’ambiente romeno, anzi moldavo, di questo ambiente si fa interprete poetico e nello stesso tempo vero, sa intuire in profondità le millenarie della stirpe e l’anima della natura selvaggia in cui si è venuta sviluppando. Nei romanzi storici (“Sotto la costellazione del Cancro”, 1929; “Le nozze della principessa Ruxandra”, 1932, ecc.) la ricostruzione delle epoche e degli ambienti può essere criticata per i personaggi storici e gli intrecci quasi inesistenti, ma la visione tra fantastica e reale di un mondo lontanissimo e attuale presenta un fascino indiscutibile. L’espressione migliore dell’arte del Sadoveanu è “L’osteria di Ancutza” (1928), breve “Mille e una notte” romeno, nelle cui narrazioni il fantastico e il reale si fondono perfettamente in un sapiente alternarsi di boiari, contadini, mercanti, demoni, monaci e briganti, avvolti dalla poetica nostalgia di un leggendario passato. Manca a questo scrittore, dotato di una innata abilità di narratore, la nota della serenità, sostituita da una fatalistica calma o da un distaccato sorriso.»
Un gigante mite e bonario, innamorato del passato contadino, della sua amata terra moldava, della foresta, dei fiumi, dei vasti cieli che si aprono quasi ai margini dell’immensa Pianura Sarmatica; oppure uno scrittore tormentato da una sottile, invincibile malinconia, come il suo conterraneo Mihai Eminescu (il più grande poeta romantico della letteratura romena, anzi, il più grande in assoluto), uno spirito che non si sentiva suo agio nei tempi moderni, ma, in fondo, che non si sentiva a suo agio in nessun tempo e in nessun luogo, perché assetato d’infinito e di eternità?
Eppure, il sentimento religioso non emerge chiaramente dalle pagine di Mihail Sadoveanu: l’inquietudine spirituale, sì, emerge in maniera piuttosto evidente; però Sadoveanu è troppo realista, troppo condizionato dagli schemi intellettuali del suo tempo, di matrice materialista e positivista, che pure, coscientemente, rifiuta, o addirittura ignora, ma ai quali resta legato per mille fili. In fondo, si può dire di lui quello che si può dire di altri scrittori dell’età del realismo e del naturalismo, ad esempio dello spagnolo Benito Perez Galdos, oppure della italiana Grazia Deledda: che egli sente una profonda insoddisfazione per la spiegazione unicamente razionale delle cose, che non crede nella concezione puramente materialista del mondo; che egli avverte, percepisce il fatto che esiste qualche cosa d’altro, e, soprattutto, che bisogna cercare, che bisogna credere in qualche cosa d’altro, in qualcosa che sta dietro la superficie esterna delle cose. E tuttavia, non riesce a compiere il passaggio, o a compierlo consapevolmente, da una concezione realista ad una concezione spirituale: rimane sospeso fra le due dimensioni.
E questo è, a ben guardare, un limite: infatti, come si fa ad ergersi a cantore epico dei contadini, dei boscaioli, dei pastori, dei briganti della foresta; come si fa a custodire il tesoro delle tradizioni rurali, che è fatto, in larghissima parte, di sentimento religiosi, senza prendere posizione rispetto a questo aspetto, così radicato e così fondamentale, della realtà sociale, psicologica, morale del popolo? Il rischio, inevitabile, è quello di restare in superficie: perché, per capire sino in fondo quel passato, quel mondo contadino, quella umanità semplice e primitiva, ma animata da una profonda e risentita moralità, da un vivo e sincero sentimento religioso, bisogna anche fare lo sforzo di aprirsi intimamente a quel mondo, di lasciarsi penetrare da quei valori, da quel modo di accostarsi alla vita, di essere uomini fra gli uomini. Altrimenti, si rischia di restare un po’ all’esterno, di guardare quel mondo in maniera affettuosa, sì, e partecipe, ma senza riuscire a vederlo realmente dall’interno, a sentirlo come lo sentono i suoi eroi quotidiani, i suoi uomini e le sue donne dalla vita comune, ma autentica, perché sorretta da una grande fede nell’invisibile.
Si prenda, a titolo di esempio, una delle opere più conosciute, anche fuori della Romania, di questo fecondissimo scrittore: «La scure» («Baltagul», del 1930). Tutta la vicenda del romanzo ruota attorno alla coraggiosa ricerca della verità e della giustizia da parte di una donna, il cui marito non è più tornato a casa, perché è stato assassinato a scopo di furto, e che non si arrende davanti ad alcuna difficoltà, sino a quando non si trova faccia a faccia con l’assassino e non lo spinge a confessare, tra le lacrime, il suo delitto. È una storia cupa, e tuttavia sorretta dalla fede e dal coraggio della donna; una storia animata da un profondo afflato epico e religioso, da un prepotente anelito alla giustizia di Dio e a quella degli uomini. Ricorda un racconto non molto conosciuto di Grazia Deledda: «Il sogno del pastore», nel quale però, il delitto del pastore è solamente vissuto in sogno: il che non evita che l’uomo, al risveglio, si senta realmente colpevole, e si affretti a compiere un’offerta espiatoria.
«La scure», però, è – come sempre, in Sadoveanu – anche un’occasione per attingere largamente al patrimonio del folklore e della civiltà contadina: a cominciare dal motivo ispiratore, che è una famosa ballata popolare, «Miorita», e proseguendo con la perfetta ricostruzione, in una lingua sapientemente calibrata, dell’intera vita di un villaggio romeno, passando per i riti che scandiscono la vita e la morte di tutti gli abitanti: il battesimo, il matrimonio, il funerale. Riti religiosi, appunto: espressione di una fede millenaria e di una visione profondamente spirituale della vita. Sadoveanu li rievoca da grande maestro della penna, quale egli è: resta, nondimeno, la domanda: è possibile rendere in modo vivo un universo in cui non si crede per davvero, o si è fatalmente costretti a rievocarlo, magari con mano felice e, senza dubbio, con sincera nostalgia, ma restandone, tuttavia, esclusi, e impossibilitati a comprenderlo dall’interno?
È una domanda legittima e pertinente: la stessa che non possono evitare di farsi i lettori di Verga, del Verga più famoso: quello de «I Malavoglia»; un Verga che descrive la vita di un villaggio di poveri pescatori appena sfiorato dai venti nuovi della modernità; ma che non sente come loro, non pensa come loro, non crede in ciò che credono loro: e che, per prima cosa, fa affondare la barca dei Toscano, la «Provvidenza», come a distruggere ogni fede nel soccorso di Dio. Ed è una domanda che attende ancora una risposta: non solo da Sadoveanu, ma da tantissimi scrittori e poeti moderni...
Già pubblicato il 30 Maggio 2015
Del 06 Marzo 2018
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