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Quel fascino strano delle Bucoliche sospese fra il sogno e la realtà
di
Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio
C’è una cosa che intriga, che sconcerta, che affascina in maniera ineffabile e quasi inesprimibile chi legge le Bucoliche di Virgilio; e che perdura anche alla seconda lettura, e alla terza, poi alla quarta, e così via, innumerevoli volte, rinnovandosi sempre. Un qualcosa che è assai difficile individuare, afferrare, riconoscere chiaramente, perché ha la musica impalpabile dello stormire del vento tra le foglie d’un bosco, e la rapida elusività dell’acqua che scorre veloce e sempre uguale sui sassi levigati del fiume, all’ombra dei rami. Intendiamo parlare di quel clima rarefatto, di quella atmosfera sognante, nei quali nondimeno, è come se fosse penetrato un pungiglione doloroso: il pungiglione della consapevolezza che la vita è anche dolore, è anche ingiustizia, è anche malvagità incomprensibile, inspiegabile. Come se, nel più bello di un fiaba per bambini, mentre la dolce fanciulla sta sognando l’incontro col bel principe azzurro, l’orco cattivo si fosse materializzato dalle pagine del libro e fosse divenuto reale, minaccioso. In pochissime altre opere, come in questa, i due estremi del romanticismo, dell’idealizzazione, della stilizzazione della vita, e quello della sua cruda e concreta realtà, fatta di amarezza, solitudine, disincanto, si incontrano e si abbracciano, finendo per fondersi l’uno nell’altro, misteriosamente, incredibilmente, date le loro opposte nature.
Si sente di essere in presenza di una cosa inaudita, un prodigio, un equilibrio che ha del miracoloso: si avverte che tale equilibrio non è affatto naturale, ma il frutto di uno sforzo spasmodico, di una volontà eroica e di un intelletto superbamente proteso ad afferrare e conciliare gli opposti della vita, senza la pretesa di spiegarli, ma così, accettandoli e assumendoli sopra di sé, in tutta la loro lacerante disarmonia: e che basterebbe un niente, un sospiro appena più profondo, un battito d’ali di una farfalla, per spezzare la magia e per far sì che i due estremi, come è fatale, tornino a separarsi: il sogno di qua, il reale di là, divisi, inconciliabili, fatalmente nemici. E tutto ciò è stato intuito, assimilato ed espresso da pochissimi altri autori, almeno con una simile lucidità e con altrettanta intensità: viene in mente lo Shakespeare del Sogno di una notte di mezza estate, ma anche de La tempesta; vengono in mente certe pagine della Bibbia, del Libro di Isaia, per esempio; vengono in mente certe fiabe e leggende popolari del folklore di svariati popoli, ad esempio Il sogno di Ileana Cosânzeana, nella letteratura popolare romena, o, fra gli scrittori moderni, il romanzo di Mircea Eliade La foresta proibita (del quale abbiamo già parlato a suo tempo).
Virgilio, animo turbato e naturalmente religioso (naturaliter christianus, come è stato detto), sia per ragioni biografiche – la confisca delle terre paterne nell’agro mantovano, per ricompensare i veterani della guerra di Ottaviano e Antonio contro i cesaricidi – sia, certamente, per più ampie ragioni di carattere spirituale, intellettuale, morale, aveva cercato nell’epicureismo, proprio come Lucrezio, un antidoto all’angoscia del vivere e al terrore della morte; aveva cercato, abbracciando gli insegnamento di Epicuro, di rasserenare il proprio animo e di tacitare le sue inquietudini, i suoi dubbi, le sue ambasce; ma vi era riuscito solo in parte. Si era accorto che non esiste un luogo dello spirito – e, nelle Bucoliche, quel luogo si esteriorizza in una Arcadia indefinita, che potrebbe essere qualsiasi regione del mondo, dalle rive del Mincio alle spiagge del Mediterraneo -, per quanto riparato e protetto, per quanto nascosto agli sguardi degli uomini, che offra una completa sicurezza dai colpi della vita; che il turbamento dell’anima, specialmente per un’anima sensibile al grande mistero della sofferenza, propria ed altrui, rimane sempre in agguato; che anche nelle condizioni più favorevoli, lontano dal tumulto del mondo, distaccati dagli affari e dagli affanni della politica, delle ambizioni civili, della lotta per l’autoaffermazione, in qualsiasi momento la lancia del dolore e dello smarrimento può trafiggere colui che meno se lo aspetta: colui che, avendo rinunciato alla competizione, si credeva al sicuro nel proprio angolino appartato.
La lancia del dolore può colpire in due modi: dall’esterno, con la violenza della storia, come nel caso del povero Titiro, spossessato del suo podere e costretto a partire con il suo gregge, ramingo sulle strade di un mondo divenuto improvvisamente estraneo ed ostile; e dall’interno, con la potenza incomprensibile e sconvolgente dell’amore non corrisposto, che crea una ferita insanabile e getta l’anima nello sconforto e nella disperazione, come nel caso di Coridone, rifiutato dal bellissimo Alessi, e di Damone, che, respinto dall’amata Nisa, decide di togliersi la vita gettandosi dall’alto di una rupe. Virgilio contempla sbigottito lo spettacolo del cuore umano che soffre, che non sa darsi pace, che aspira ad una pienezza ed ad una felicità sempre sfuggenti e, di fatto, irraggiungibili; osserva e medita, e le sue Egloghe sono il frutto, pensoso e sofferto anch’esso, della sua meditazione. Una lettura frettolosa o superficiale potrebbe velare, in esse, proprio quello che ne è, invece, l’aspetto più profondo e caratterizzante: il senso drammatico della vita e l’aspirazione insoddisfatta a una risposta rasserenatrice, allo scioglimento del mistero insondabile della sofferenza umana. Quello che Virgilio cerca, ma lo cerca invano, è un significato superiore, uno scopo intellegibile al vivere e al morire dell’uomo; qualcosa che possa lenire e consolare il dolore degli uomini, asciugare le lacrime delle madri che piangono la morte immatura dei figli; qualcosa che spieghi e giustifichi questa incessante vicenda di lotte, violenze, ingiustizie, che è la condizione umana e alla quale nessun uomo riesce mai a sottrarsi in maniera stabile, nemmeno il filosofo che più intensamente riflette per trovare un ordine più alto nell’universo, ed una meta più nobile di quella che inseguono, smarrendosi, la maggior parte degli uomini.
Si pensi a quanto frequentemente ricorre, nell’opera di Virgilio, la pulsione di morte: Damone, che, nella VIII Egloga, decide il gesto estremo per sottrarsi alla pena del suo amore non ricambiato e perché spinto dalla gelosia, da quando la giovanissima Nisa gli ha preferito un altro, non è che la prima di una serie di figure dolenti, che cercano nella morte, se non la risposta, almeno l’oblio dei loro tormenti immedicabili: come la bella e generosa regina Didone, protagonista assoluta del IV canto dell’Eneide, uno dei personaggi più drammatici e più alti mai creati dalla letteratura d’ogni tempo; ma come anche la regina Amata, tormentata dalle Furie di un amore materno mal consigliato, e disperata per la notizia, falsa per il momento, della morte di Turno, il genero mancato e amatissimo, la quale s’impicca al soffitto, nel dodicesimo canto dello stesso poema. Come nel caso di Foscolo, si può dire che Virgilio abbia esorcizzato nel suicidio di questi eroi ed eroine, alcuni illustri, altri ignoti, il suo stesso desiderio di morte; e che lo abbia infine superato accettando di convivere con il mistero del dolore, pur senza riuscire a farsene una ragione. E questa è già una premessa all’accoglienza del messaggio cristiano, che parte proprio da tale accettazione, per gettare nel cuore degli uomini i semi d’una speranza nuova e la fede in un mondo rigenerato dall’amore.
Ha osservato Adriano Bacchielli, uno dei maggiori traduttori contemporanei del poema virgiliano (da: Virgilio, Eneide, versione di A. Bacchielli, Torino, G. B. Paravia & C., 1963, pp. 4-5):
Fu appunto qui, a Napoli, mentre era immerso in questi studi scientifici e filosofici e ascoltava gli insegnamenti del maestro Sirone, che Virgilio concepì quei componimenti pastorali intitolati “Bucoliche” (o “Egloghe”) che furono la prima manifestazione della sua migliore poesia.
In questi componimenti egli diede voce poetica a quei filosofici precetti dell’epicureismo che più si accordavano con la sua intima tendenza ad evadere dal mondo della realtà dolorosa, e dell’aspra vita sociale e politica, in un mondo di sogno tutto proprio, libero alle ambizioni e dalle passioni: un mondo isolato, fatto di semplicità e di schiettezza, come appunto quello dei pastori e dei contadini da lui descritto e vagheggiato.
La moda di questa poesia pastorale era propria anche dei “poetae novi” di cui già si è parlato; ma mentre per costoro essa si risolveva più che altro in esercitazioni letterarie e stilistiche, nel culto delle finezze artistiche, nell’imitazione di Teocrito e di altri poeti alessandrini, per Virgilio era un vero bisogno dello spirito che veramente anelava ad un’oasi di pace, ad un porto di serenità, ad una vita semplice e tranquilla come quella che aveva vissuto nei primi anni della sua vita accanto ai contadini del Mantovano.
Le “Bucoliche” sono quindi, innanzi tutto, una esaltazione della vita campestre, dei suoi orizzonti limpidi e sconfinati, della sua pace allietata dai freschi mormorii delle acque e dal sereno lavoro dei pastori e dei contadini. Era, in sostanza, la segreta aspirazione di tutta la generazione di Virgilio, stanca di lotte fratricide e di guerre, e desiderosa ormai solo di pace e di riposo come dimostra anche la poesia di Tibullo e di Orazio.
Ma quanto sia vano cercare di ignorare la realtà e di rifugiarsi in mondi immaginari, artificiali, egoisticamente costruiti per i bisogni individuali del proprio spirito, il poeta dovette ben presto imparare a proprie spese: vinti a Filippi gli uccisori di Cesare, sostenitori della repubblica, i triunviri assegnarono come premio ai loro veterani le terre dei municipi rimasti fedeli all’idea repubblicana. Fra questi era Cremona, ma non bastando Cremona furono confiscate anche le terre della vicina Mantova (che, pure, non era nel numero dei seguaci di Bruto) e quindi anche i poderi della famiglia di Virgilio.
Questo doloroso avvenimento non restò sena conseguenze nell’animo del poeta, che anzi gli ispirò alcune delle “Egloghe” più belle, lo indusse a comporne alcune allo scopo di riottenere le sue terre col favore di Ottaviano e di altri potenti che avevano allora grande autorità nella Gallia transpadana (come Alfeno Varo, Cornelio Gallo, Asinio Pollione) e, soprattutto, consolidò in lui la convinzione che la vita sia sempre e ovunque dominata dal dolore, dall’ingiustizia, dall’arbitrio, dall’egoismo degli uomini e degli Dei, dal capriccio del caso.
Da questo stato d’animo nacque la migliore poesia delle “Bucoliche”, nelle quali vediamo poveri contadini costretti dagli insolenti veterani ad abbandonare a loro il frutto delle proprie fatiche, la casetta dal tetto erboso, i bei maggesi e le piante curate con infinito amore, e, accanto a costoro, altre figure di umili e di innocenti raggiunti dalla sventura per altra via: madri che piangono disperate sul cadavere dei figli, infelici che vivono sotto il tormento delle passioni di cui non sanno e che gravano su loro quasi come furori e tormenti immedicabili, giovani che invano implorano l’amore della persona amata. Su tutto domina poi la visione del tempo ch annienta ogni cosa, del buio che avvolge la vita umana la quale fiorisce e si spegne senza che noi ne sappiamo il perché, della violenza cieca del fato che sconvolge ogni cosa, ogni sogno, e che più si accanisce contro i più deboli e i più innocenti.
La poesia delle “Bucoliche” nasce, in sostanza, dal contrasto fra il sogno e la realtà, fra il desiderio di evasione da un mondo sconvolto dall’ingiustizia, dal’egoismo, dall’errore, e il turbamento che la dura realtà della vita, che ovunque riesce a penetrare, porta anche in un mondo ideale costruito e vagheggiato per la pace del proprio spirito.
È giusto, perciò, avvicinarsi in punta di piedi a quest’opera giovanile di Virgilio, che, a torto, taluni considerano “minore”, mentre è vero forse il contrario: che in essa, cioè, di slancio, pur nella sua giovane età, il poeta mantovano ha attinto le vette più alte dell’intera sua arte, e fra le più alte di tutta la Musa universale. Perché mentre, nelle Georgiche, splendido poema, sì, e tuttavia troppo scopertamente didattico, e nell’Eneide, grandiosa per concezione e finalità, ma non rispondente alle corde più intime della sua ispirazione poetica, che era mite e introspettiva e non eroica né tragica, Virgilio non riesce ad essere se stesso sino in fondo, nelle Egloghe, invece, egli si cala interamente nella propria parte, parla da se stesso a se stesso, senza alcun diaframma, in un colloquio interiore che, proprio perché così intenso, diviene significativo per tutti i lettori d’ogni tempo e d’ogni luogo. E se con le Georgiche egli ha voluto rivaleggiare con Esiodo, e nell’Eneide ha gareggiato con Omero, in entrambi i casi è riuscito inferiore ai suoi modelli ideali; mentre nelle Bucoliche, ove il poeta di riferimento era Teocrito, egli riesce superiore al modello e manifesta una coerenza ed una perfezione espressive che hanno del prodigioso, e paiono uscite dall’arte di un poeta ormai esperto e maturo negli anni. L’atmosfera strana, incantata, e tuttavia pensosa e come sospesa, che si respira nelle Bucoliche, nasce da questa precoce maturità. Il passo successivo – come hanno sentito Dante e i medievali - sarebbe stato abbracciare il Vangelo: ma Virgilio non fece in tempo a conoscerlo...
Già pubblicato il 08 Agosto 2016
Del 18 Febbraio 2018
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