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Quando la bestia si risveglia
di
Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio
C’è una bestia che sonnecchia in fondo all’anima di ciascun essere umano: anche il più mite, il più buono, il più altruista.
I santi lo sapevano e lo sanno: l’uomo non è un angelo; il bene che riesce a fare, lo fa nonostante la bestia che sonnecchia e non per merito suo, ma con l’aiuto che riceve dall’Alto; perché da solo non saprebbe fare niente di buono.
Molti diranno che questo è pessimismo; e aggiungeranno che il cristianesimo è pessimista, e che dunque il cristianesimo è triste. Ragionamento schematico, rozzo, fuorviante, perché non mette a fuoco il problema nella maniera giusta.
Punto primo: il realismo non è pessimista, né ottimista; è realismo, e basta. Pertanto, affermare che l’uomo è incapace di fare il bene con le sue sole forze non significa cadere nel pessimismo, se con questa espressione si intende una ingiusta e arbitraria svalutazione della realtà in senso negativo; significa soltanto aver osservato a lungo il comportamento umano, sia il proprio che l’altrui, e averne tratto le logiche e coerenti conclusioni.
Punto secondo: il pessimismo antropologico del cristianesimo viene compensato “ad abundantiam” dalla fede in Dio e dalla certezza nel suo aiuto pronto e amorevole, per cui ciò che l’uomo non può fare da solo, può farlo, e in maniera sbalorditiva, con l’aiuto divino. Praticamente, non c’è limite a quello che l’uomo è capace di fare, nell’amore e nel bene, quando si affida completamente a Dio e agisce non fidando nelle sue forze e nelle sue capacità, ma riconoscendosi umile e fragile, e, per giunta, peccatore, cioè indulgente verso il male.
Punto terzo: la valutazione spassionata ed equanime di una realtà non conduce mai, di per sé, alla tristezza; semmai, vi conducono le ragioni che hanno prodotto quella tale situazione. In altre parole: non è triste colui che, vittima di un incendio scoppiato all’improvviso, si trova a contemplare le rovine di quella che era stata la sua casa: non è triste, dicevamo, per il fatto di essersi reso conto di quanto è successo (se non se ne fosse accorto, sarebbe perito tra le fiamme, insieme ai suoi cari: e già questa riflessione dovrebbe offrire un valido motivo di rasserenamento), ma perché esistevano le condizioni che hanno causato o favorito il verificarsi dell’incendio: la povertà o l’infiammabilità dei materiali da costruzione; la disattenzione o l’incoscienza di qualche inquilino; un difetto nel sistema di riscaldamento, al quale si sarebbe dovuto porre rimedio. La tristezza non viene dalle cose, ma dal modo in cui le viviamo e dalla constatazione che non si è voluto provvedere per tempo a quanto era necessario, che si sono sottovalutati dei pericoli.
La natura umana, in conseguenza del Peccato originale, è inclinata alla debolezza, e dunque a compiere più facilmente il male che il bene: tanto è vero che, quando facciamo qualcosa di buono, ne proviamo un’intima soddisfazione, una specie di sollievo, come di chi sia riuscito a vincere una difficoltà; e questo a riprova del fatto che compiere il bene non ci è affatto “naturale”. Prendere atto di tutto questo non significa essere pessimisti, ma realisti; rifiutarsi di prenderne atto, come fanno i seguaci di quasi tutte le filosofie laiciste, immanentiste, naturaliste, panteiste, significa esporsi alle conseguenze disastrose dell’ingenuità e della presunzione. Significa prendersela con l’odore del fumo, che ci ha risvegliati in tempo per salvarci la vita, invece che con la persona o la situazione che ha reso possibile lo scoppio dell’incendio.
E ora torniamo alla bestia. L’anima è un tempio sacro, abissale, di cui nessuno potrà mai scorgere le profondità: sia verso l’alto che verso il basso. La bestia si tiene acquattata nei recessi più nascosti, in quiescenza: ma è pronta a balzar fuori non appena si presenti l’occasione propizia. Naturalmente, questo è solo un modo di dire: non c’è nessuna bestia; la bestia siamo noi, sono le nostre cattive inclinazioni. Non è tutto buono, quel che abbiamo dentro: se così fosse, non saremmo uomini, ma angeli. Questa antropologia angelica è stata predicata da alcuni cattivi filosofi, ma è falsa. A smentirla sono i fatti, e coi fatti nessuna filosofia dovrebbe mai litigare; beninteso, purché si tratti di una filosofia seria.
Ora, le nostre cattive inclinazioni sono favorite dall’insorgere di alcune circostanze esterne: la guerra, per esempio, dà il via libera alla bestia che è in noi, la scioglie dalle catene, le permette di avventarsi furiosamente contro la prima preda a portata dei suoi artigli. Il sadismo viene santificato, perché una decorazione è riservata a colui che uccide il maggior numero di nemici. Ma la guerra vera, e specialmente la guerra moderna, non è quell’evento eroico, e perfino un po’ romantico, che alcuni s’immaginano: è la cosa più sporca che esista, perché si rivolge in gran parte contro le popolazioni civili. Così, la guerra si traduce nella pratica dell’assassinio sistematico e legalizzato, nella costante sollecitazione delle inclinazioni più oscure e malvagie latenti in fondo alla nostra anima, nella sua pare più torbida e tenebrosa.
Ci piace riportare, a titolo di esempio (ma quanti ne potemmo fare: infiniti!), una pagina del romanzo di Isabel Allende «Ritratto in seppia», in cui si descrive la sanguinosa e spietata battaglia per la conquista di Lima da parte delle truppe cilene, a metà gennaio del 1881, nel corso della cosiddetta Guerra del Pacifico (titolo originale: «Retrato en sepia», 2000; traduzione dallo spagnolo di Elena Liverani, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 102-104):
«Alle sette di mattina, dopo due ore di combattimento, la prima bandiera cilena sventolava su una delle cime e Severo, in ginocchio sulla collina, vide una massa di soldati peruviano allo sbando ritirarsi per poi riunirsi immediatamente nell’aia di una fattoria e ricevere in formazione la carica frontale della cavalleria cilena. In pochi minuti il luogo diventò un inferno. Severo del Valle, che lo stava raggiungendo di corsa, poteva vedere il luccichio delle sciabole e udire gli echi della sparatoria e le grida di dolore. Quando raggiunse la tenuta, i nemici stavano già fuggendo, nuovamente inseguiti dalle truppe cilene. In quel momento lo raggiunse la voce del suo comandante a ordinargli di raggruppare gli uomini del suo distaccamento per attaccare il centro abitato. La breve pausa durante la quale si riorganizzarono le fila gli concesse un momento di tregua; si lasciò cadere a terra, bocconi, ansante, tremante con le mani avvinghiate alla sua arma. Valutò che l’avanzata era pura follia, perché il suo reggimento non avrebbe potuto far fronte da solo alle numerose truppe nemiche asserragliate nelle case e negli edifici, e avrebbe dovuto combattere porta a porta; ma suo compito non era pensare, bensì obbedire agli ordini del suo superiore e ridurre il villaggio peruviano a macerie, cenere e morte. Qualche minuto dopo trottava alla testa dei compagni, mentre i proiettili gli passavano accanto, fischiando. Entrarono su due colonne, lungo i lati della strada principale. La maggior parte degli abitanti era fuggita al grido di: “arrivano i cileni!”, ma quelli rimasti erano intenzionati a combattere con tutto ciò che si ritrovavano a portata di mano, dai coltelli da cucina alle padelle di olio bollente che venivano rovesciate dai balconi. Il reggimento di Severi aveva avuto l’ordine di andare di casa in casa fino all’evacuazione totale, compito piuttosto arduo viso che il villaggio era pieno di soldati peruviani barricati dietro ai tetti, gli alberi, le finestre e le soglie delle case. Severo, la gola secca e gli occhi infiammati, vedeva a malapena a un metro di distanza; l’aria, densa di fumo e di polvere, si era fatta irrespirabile e la confusione era tale che nessuno sapeva come procedere e si limitava a imitare chi gli era davanti. Improvvisamente sentì intorno a sé una gragnola di pallottole e comprese che non era possibile continuare ad avanzare, bisognava cercarsi un riparo. Con il calcio dell’arma aprì la porta più vicina e irruppe nella casa con la sciabola in alto, accecato dal contrasto tra il sole che bruciava fuori e la penombra interna. Aveva bisogno di alcuni minuti per caricare il fucile, ma non gli furono concessi: un urlo straziante lo paralizzò per la sorpresa e scorse una figura accovacciata in un angolo che ora si apprestava a balzare su di lui brandendo un’ascia. Fece in tempo a proteggersi la testa con le braccia e a buttarsi all’indietro. L’ascia cadde come un fulmine sul suo piede sinistro, inchiodandolo a terra. Severo del Valle non si rese conto di quel che gli era successo, reagì solo d’istinto. Spinse il fucile con la baionetta inastata con tutto il peso del corpo, la infilzò nel ventre dell’aggressore e poi la estrasse con uno sforzo brutale. Un fiotto di sangue lo colpì in pieno volto. E solo allora si rese conto che il nemico era una ragazza. L’aveva sventrata e lei, in ginocchio, si teneva le viscere che iniziavano a riversarsi sul pavimento di assi. I loro occhi s’incrociarono e si fissarono per un’eternità, sorpresi, desiderosi di sapere nel silenzio interminabile di quell’istante chi fossero, perché si stessero fronteggiando a quel modo, perché si dissanguassero, perché dovessero morire. Severo tentò di sorreggerla, ma non riuscì a muoversi, e per la prima volta sentì il terribile dolore al piede, che gli saliva come una lingua di fuoco dalla gamba al petto. In quel momento, un altro soldato cileno irruppe nella casa, valutò la situazione con un’occhiata e senza esitare sparò a bruciapelo alla ragazza, che comunque era già morta; poi impugnò l’ascia e con uno strappo sovrumano liberò Severo. “Andiamocene, tenente, bisogna allontanarsi da qui, l’artiglieria sta per iniziare a sparare!”, gli ingiunse, ma Severo perdeva sangue a fiotti, sveniva riprendeva conoscenza per qualche istante e poi tornava a circondarlo l’oscurità. Il soldato gli avvicinò la sua borraccia alla bocca e lo obbligò a bere un lungo sorso di acquavite; poi con un fazzoletto improvvisò un laccio emostatico, glielo legò sotto il ginocchio, sim mise il ferito sulle spalle e lo trascinò fuori. Altre mani poi lo aiutarono e quaranta minuti dopo, mentre l’artiglieria cilena spazzava via a cannonate quel paesino, riducendo a macerie e sfasciume ciò che un tempo erano pacifiche terme, Severo aspettava nel cortile dell’ospedale, insieme a centinaia di cadaveri massacrati e migliaia di feriti ammassati nelle pozzanghere e tormentati dalle mosche, che arrivasse la more o un miracolo a salvarlo. Il dolore e la paura lo intontivano, ogni tanto colava a picco in un misericordioso svenimento e quando resuscitava vedeva il cielo volgere al nero. Al calore bruciante del giorno seguì il freddo umido della “camanchaca”, la densa nebbia invernale che avvolgeva la notte nel suo spesso mantello. Nei momenti di lucidità si ricordava delle orazioni imparate durante l‘infanzia e pregava per una morte rapida […].»
L’intensità drammatica e il realismo crudo, ma non gratuito, di queste scene, e specialmente di quella della lotta mortale fra il tenente della cavalleria cilena e la sconosciuta ragazza armata di scure, che si colpiscono a vicenda fin quasi a uccidersi nello stesso istante, ci riportano alla riflessione sulla assoluta mancanza di ragionevolezza, oltre che di senso etico, in cui la guerra pone gli esseri umani. C’è tutto, in quel lunghissimo sguardo interrogativo che l’uomo e la dona si scambiano, prima di perdere i sensi, lui con il piede inchiodato a terra dall’ascia, lei con le interiora che le scappano fuori dal ventre, benché cerchi istintivamente di trattenerle, e si rovesciano sul pavimento di legno: stupore, incredulità, ricerca affannosa di una ragione, di un significato in quello che sta accadendo, in ciò che l’uno ha fatto all’altra.
La guerra, dunque, è una delle occasioni più favorevoli allo scatenarsi della bestia; ma ve ne sono altre; inoltre, esistono varie maniere in cui la bestia esce ruggendo dalla sua tana, in cerca di prede, e varie circostanze che la favoriscono, non sempre evidenti e clamorose. Pensiamo, per fare un altro esempio, alle rubriche dei giornali o a quelle televisive, dedicate alla cronaca nera; pensiamo al quotidiano bombardamento, solo in apparenza indignato e costernato, ma in realtà sottilmente e perversamente compiaciuto, di fatti criminali, violenti, atroci: stupri, rapine, ferimenti, assassinii, rapimenti, maltrattamenti crudeli e sadici. Pensiamo a certe immagini mostrate al pubblico, a certe interviste, a certe “inchieste” che sguazzano nel sangue, nel terrore, nella morbosa attrazione nei confronti del male. A volte queste rubriche e questi programmi si travestono e si ammantano di buone intenzioni: si tratta di fare giustizia, di cercare la verità, di trovare delle persone scomparse… Così, coloro che le seguono si sentono moralmente giustificati nella loro curiosità: però, se solo avessero il coraggio di guardarsi dentro con un minimo di onestà, vedrebbero che non è il desiderio di giustizia, né la ricerca della verità e tanto meno la compassione, ciò che li tiene inchiodati a simili argomenti, ma una segreta attrazione di natura maligna.
La società odierna fa di tutto per sguinzagliare la belva, anziché tenerla legata. Ovunque si assiste al suo incitamento, come se scherzare col fuoco a questo modo fosse la cosa più naturale del mondo. Ma dietro a tali strategie non vi è soltanto ingenuità, vi è anche uno spirito maligno, demoniaco. Perché la bestia è facilmente adescata da una autentica Bestia, e questa non metaforica; una Bestia che si nasconde nelle pieghe della nostra società progredita ed evoluta, così progredita ed evoluta che non crede più alle Bestie, né al Male. E sbaglia: perché questo non è pessimismo, ma realismo...
Già pubblicato il 25 Luglio 2015
Del 16 Gennaio 2018
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