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La metastasi dei partiti divora lo Stato
di
Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio
I partiti, si dice e si ripete, sono il baluardo della democrazia; quanto più la vita politica è caratterizzata dalla presenza e dall’iniziativa dei partiti, tanto più vi è la garanzia che lo spettro del totalitarismo verrà tenuto sufficientemente lontano; quanto più sono i partiti a dominare, anche psicologicamente, l’immaginario politico degli Italiani, tanto meglio è per scongiurare il pericolo di un ritorno alla dittatura, come avvenne al tempo del fascismo, quando i partiti furono messi fuori legge (tranne quello fascista, ovviamente).
D’altra parte, non è chi non veda come lo strapotere dei partiti ha portato alla spartizione della cosa pubblica, alla paralisi del Parlamento, all’esautorazione dei governi, al nepotismo, alla corruzione, alla connivenza con la criminalità organizzata, alle aste e ai concorsi truccati, alla spirale infernale di sempre più ingorde richieste di denaro, che si trasferisce dalle casse dello stato a quelle dei partiti stessi, per vie legali e illegali, creando una vera e propria economia sommersa e una sorta di stato parallelo, o piuttosto di antistato, metastasi della partitocrazia rampante.
C’è una serie di cause storiche abbastanza precise che spiegano una simile deriva: la partitocrazia malata, travolta da Tangentopoli alla fine della Prima Repubblica, ma ora più viva e più arrogante di prima (con i politici che, rispetto a quelli di allora, secondo il giudice Davigo, non rubano meno di allora, solo che hanno smesso di vergognarsene, anzi, se ne vantano), a cominciare dal contesto in cui sono nati i partititi di massa italiani. Il contesto è stato il primo dopoguerra, con l’economia disastrata e una crisi morale galoppante, e con un’Italia che, pur essendo uscita vittoriosa dalla più dura prova militare, finanziaria, sociale e spirituale della sua giovane storia di nazione sovrana, manifestava, nondimeno, tutti i sintomi di una società che si sente sconfitta.
Il fatto veramente anomalo era che le forze sociali che erano state contrarie alla guerra, socialisti e cattolici, videro nelle elezioni politiche del 1919 la grande occasione della rivincita e della vendetta: si trattava di punire le forze che, invece, avevano voluto la guerra. E così fu. In altre parole, il Partito socialista e il Partito popolare nacquero (il primo, a dire il vero, esisteva fin dal 1892, ma solo ora era diventato una grande forza politica, la prima per numero di voti) non con l’obiettivo di rappresentare costruttivamente i milioni d’Italiani che li avevano votati, e dunque per andare al governo del Paese e avviare le riforme, secondo loro, necessarie per favorire la ripresa e il ritorno alla normalità; ma allo scopo di punire chi aveva governato prima, di svalutare quanto aveva fatto – il che implicava la necessità di gettare nel cestino dei rifiuti i sacrifici fatti in guerra e anche il loro ricordo: ecco il perché dei fischi, degli insulti e degli sputi sui reduci e gli ufficiali – e di chiamare alla riscossa il popolo che, nel 1915, era stato trascinato in guerra controvoglia. In particolare, i socialisti non pensavano a governare, ma a preparare la rivoluzione: il loro obiettivo non era il governo dell’Italia, e nemmeno la democrazia, ma l’instaurazione di una dittatura di tipo bolscevico. Nell’immediato, essi intendevano organizzare la protesta permanente dei lavoratori contro i datori di lavoro, degli impiegati pubblici contro lo Stato, dei braccianti contro gli agrari, degli operai contro gl’industriali, dei ferrovieri contro… le ferrovie, cioè, ancora una volta, lo Stato. I popolari erano, naturalmente, più moderati, dato che si ispiravano alla dottrina sociale della Chiesa; ma anch’essi, e specialmente quelli di sinistra (che non erano pochi), vedevano nello Stato più un antagonista che la casa comune di tutti, e consideravano il proprio partito come la loro vera patria, anche per la sua connotazione di partito d’ispirazione cattolica, benché laico. Insomma: i due partiti di massa nascevano con l’obiettivo, puramente negativo, di rendere impossibile l’ordinato governo dello Stato e la buona amministrazione della cosa pubblica; per arringare, con folle demagogia, le masse frustrate, impoverite dalla guerra, amareggiate dalla disoccupazione e dai sacrifici fatti apparentemente per nulla, e, spesso, dai lutti subiti nel corso della guerra.
Furono questi partiti-mostri che il movimento fascista spazzò via; fu questa democrazia stitica e inefficiente, che venne rovesciata; e fu questo Parlamento, impotente e corrotto, che fu conquistato d’assalto. I sindacati vennero aboliti, al pari dei partiti, dopo che avevano dato ampie prove del fatto che non si erano mai considerati come organizzazioni di lavoratori operanti all’interno della società per il bene comune, ma strumenti della lotta di classe, mossi dall’odio contro la borghesia e contro lo Stato (era bastato, nel 1919-20, che su un treno viaggiasse un ufficiale, perché i ferrovieri lo fermassero in mezzo alla campagna, lo bloccassero per ore e ore, finché l’indesiderato non scendeva con le buone, sempre che non fossero necessarie le cattive). E, anche se il sistema delle corporazioni non decollò mai veramente, quanto meno esso venne enunciato e propagandato con forza: quel che il fascismo voleva era il superamento della lotta di classe in nome della collaborazione fra le classi, cioè, dopo tutto, qualche cosa di simile a quella terza via fra capitalismo e comunismo, che già la dottrina sociale della Chiesa aveva perseguito, pensando essa pure, a un certo momento, al possibile ripristino delle antiche corporazioni di mestiere.
Caduto il fascismo, ecco che i partiti di massa tornarono alla carica, senza nulla aver imparato dalla lezione della ventennale dittatura e, ancor più, dai macroscopici errori, dalle degenerazioni e dai vizi che avevano caratterizzato il loro esordio, nel 1919. L’Italia del 1946 era, del resto, molto simile a quella del primo dopoguerra: anche stavolta la società italiana usciva con le ossa rotte da una catastrofica sconfitta (reale, peraltro, e non immaginaria, come ventisette anni prima); e, anche stavolta, gonfia di rancore e desiderio di vendetta contro i responsabili di tanto disastro. Solo che, stavolta, i responsabili erano già stati puniti ed erano pressoché scomparsi; non restava con chi prendersela, contro chi rivolgere tutta la rabbia accumulata: ragion per cui ci si dovette creare un apposito nemico pubblico. E fu il “fascismo”: anche se, per legge e di fatto, esso aveva cessato di esistere fin dal 25 aprile del 1945, il fascismo”, come categoria del Male, anzi, del Male Assoluto, continuò a svolgere degnamente il ruolo di spauracchio per una settantina d’anni ancora, cioè, si può dire, fino a oggi, o quasi. La colpa d’ogni disgrazia era del “fascismo”: il basso costo del lavoro, l’egoismo delle classi padronali, l’inefficienza della giustizia, i disservizi della pubblica amministrazione, la qualità scadente della scuola. Il male era, ancora e sempre, nel “fascismo”; per tenere l’Italia sui giusti binari, per difenderla dai pericoli, per garantirle un futuro e una rispettabilità democratica internazionale, bisognava che le forze politiche si stringessero in una sacra unione “antifascista” e si giurassero reciproca fedeltà, nel nome della difesa della libertà.
Questo fece sì che le forze del cosiddetto “arco costituzionale” – cioè tutte, tranne i soliti e immancabili “fascisti” – potessero dare l’assalto allo Stato, spartirselo, divorarlo, sperperarne il tesoro, regalando pensioni baby, erogando finanziamenti pubblici agli amici degli amici, conquistando il territorio grazie alle cooperative di consumo, restaurando la dittatura sindacale che, se non aiutava la grande impresa a staccarsi dalle generose mammelle dello Stato per camminare sulle sue gambe, a proprio rischio e pericolo (come in tutti i Paesi normali), né a difendere salari e pensioni a livelli paragonabili a quelli delle altre democrazie occidentali, in compenso blindava il posto di lavoro per tutti, e specialmente per i più svogliati, inefficienti e cialtroni, purché fossero adeguatamente sindacalizzati e politicizzati, ovviamente sotto le bandiere dell’”antifascismo”.
Queste dinamiche perverse sono state acutamente individuate e descritte, fra gli altri, dallo storico Adolfo Omodeo, che ne colse tutte le implicazioni deleterie fin dall’immediato secondo dopoguerra, in un articolo, Uomini e partiti, apparso su L’Acropoli del gennaio 1946 (in: La sconfitta del “moderno Principe”. La partitocrazia in Italia dalle origini al crollo della Prima Repubblica, a cura di Gaetano Quagliariello, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Inmmagine1993, pp. 37-39):
Una critica che veniva mossa continuamente alla politica parlamentare prefascista italiana e a quella francese era di eccessivo individualismo. I partiti erano una pedana per il salto , un'improvvisata base di azione, che si abbandonava senza tanti rimpianti e senza scrupoli di coerenza. La vita politica assumeva l'aspetto cinico della corsa al potere, che solo da qualche benefizio di legislazione o d'amministrazione veniva se non giustificata almeno alleggerita del discredito della mancata fede.
Come reazione si è avuta la formazione dei partiti chiusi, con rigida disciplina da ordine religioso, con un culto della propria parte che si può dire esemplato dalle costituzioni della Compagnia di Gesù. I partiti hanno ingoiato gli individui: nessuno si può muovere o può, non dico parlare, ma addirittura pensare, senza il permesso dei superiori. Ognuno è infeudato nella sua parte e quasi riscisso dalla solidarietà con gli altri uomini e con lo Stato. I partiti non esitano a considerare buona preda i diritti sovrani dello Stato che dovrebbero garantire la tutela imparziale a tutti,. Fra i due estremi, dell'individualismo anarchico che usa i partiti come pretesto e dei partiti che spezzano le individualità, non s'è trovata ancora mediazione alcuna. Sugli inconvenienti dell'anarchia individualistica s'è parlato tanto che per il momento è inutile insistervi. Esaminiamo ora gli inconvenienti dei partiti di ferro. Essi si possono ricapitolare in uno solo: hanno un'assoluta incapacità a confluire in una piena collaborazione antagonistica. Assorbono, aspirano i seguaci in un'astratta trascendenza del partito stesso, tolgono comunicativa e abbandono, arrestano sviluppi e svolgimenti che ogni uomo, a contatto con altri di diverso indirizzo, sente sorgere nella mente. Questi sviluppi sono considerati di solito irregolari ed abnormi, e al più devono maturare lentissimamente nelle discussioni interne di partito. Perciò i partiti chiusi sono istintivamente avversi ad ogni forma parlamentare. L'istituto parlamentare poggia soprattutto su questo fluido sviluppo delle idee che reagiscono l'una contro l'altra, sul fatto che al chiudersi di una discussione ognuno si trova ad esser diverso da quello che era agli inizi.
Perché ciò avvenga bisogna che ogni partito si disciolga momentaneamente nelle personalità che lo compongono. Vale per i parlamenti il vecchio detto alchimistico: "corpora non agunt nisi soluta". La libera reazione al pensiero degli avversari determina un'autorevolezza diversa da quella regolata dalle gerarchie del partito, differenzia le forze dell'uno in confronto con quelle dell'altro, e fa sorgere pensieri e problemi on previsti dagli strateghi dei direttori.
Il primo partito rigido che agì in tal senso - bisogna dirlo non per rinfaccio, ma per monito - fu il Partito popolare negli anni 1919-1922. Il segretario del partito, don Luigi Sturzo (credo che l'illustre uomo sia per primo persuaso dell'errore commesso), finì con lo svalutare il Parlamento, restandone egli fuori. I deputati di quel partito apparvero automi mossi dalla segreteria, non liberi spiriti. Per questa via seguita da altri partiti, il Parlamento andò perdendo il carattere di suprema istanza e di centro unico di libera politica. La politica si reduplicò: oltre alla politica nazionale si ebbe quella interna dei partiti con contrasti di tendenze, eresie e scomuniche. I partiti - data la loro esuberante molteplicità - non furono contenti del sistema maggiore che presupponeva il gioco di due soli partiti antagonisti: vollero una forza matematicamente calcolata sul numero dei voti. Il risultato si fu che la maggioranza divenne incerta, perché spesso in una votazione elettorale il divario fra due politiche è di non molti voti. Col libero movimento dei deputati mancò la plasticità necessaria al parlamento, e il Parlamento, col suo discredito, fu incapace della sua funzione essenziale di deliberare, di conchiudere con un atto di legittima autorità il ciclo dei liberi dibattiti politici. Invece di avere una reazione, per così dire, chimica delle opinioni, si avevano quattro noci in un sacco: si aveva un bel rimestare, i partiti restavano quelli che erano, perché avevano ingoiato gli uomini.
Posti i partiti fra le cose sante intangibili, identificabili con confessioni religiose, si aveva un pericoloso piano inclinato verso il totalitarismo. Il partito mirava alla conquista dello Stato. Nel regime liberale il partito vincitore assumeva il potere, ma doveva risolversi in una migliore interpretazione dell'universalità dello Stato imparziale per tutti, sotto pena d'essere travolto e abbassato a minoranza. Invece coi partiti bloccati si tende ad assorbire lo Stato nel partito, col fenomeno che noi tutti abbiam veduto in atto nel fascismo.
Coerentemente si ha la formazione dei partiti di massa, che è una specie di leva degli adepti, il loro irreggimentamento in tutte le attività, in tutte le età, con opere assistenziali, dopolavoristiche, infantili, femminili, ecc. Tutto ciò dà l'impressione di grande forza. Ma - lo abbiamo veduto col fascismo - tali sviluppi possono portare all'urto in piazza invece che a democratici dibattiti in Parlamento, e il nostro supremo interesse è d'incanalare in un organo legale e costituzionale, dal ritmo definito, la vita politica. V'è ance un altro inconveniente gravissimo. Ogni forma di mobilitazione pesa ed opprime. Se i poteri dei partiti di massa divenissero preoccupanti per gli iscritti, si riprodurrebbe il caso del fascismo, o delle moltitudini irreggimentate venticinque anni fa dal massimalismo. Gli eserciti si sbanderebbero al primo incidente, e tutti serberebbero in cuore una cupa diffidenza contro la vita politica, proprio quella diffidenza che ora avvelena l'attività pubblica. Gli uomini consci della situazione escono dalla servitù assetati di politica, e rischiano di dimenticare che per infiniti altri la politica è un elemento fra gli altri, che non esclude o sopraffà la vita di famiglia, il pensiero delle ricerche scientifiche, l'attività economica. Non si deve commettere l’errore di bruciare in un momento le energie politiche – che in Italia non sono mai state sovrabbondanti – creando lunghi periodi di sazietà e di disgusto. Bisogna lasciare al cittadino la sua libertà e la sua opinione; chiamarlo a rispondere in determinati momenti, consultarlo liberamente e lasciandogli la coscienza di compiere una funzione importante e non sfornita d’iniziativa.
Questi, in complesso, sono gli svantaggi dei partiti chiusi, che controbilanciano quelli dell’anarchia democratica tante volte deplorata…
I partiti di massa italiani sono stati, a ben guardare, la conferma di una verità politica essenziale: che, se una società non è intimamente matura per la democrazia, niente e nessun meccanismo esterno potranno mai riconciliarla con lo spirito animatore di essa. La democrazia, in altri termini, non è un bene metafisico: è una concreta aspirazione e, nello stesso tempo, un modus operandi delle società mature dal punto di vista civile. Quando un popolo è veramente tale, quando è sufficientemente sviluppato il senso della collaborazione in vista dell’interesse generale, lì la democrazia diventa una richiesta naturale della società, e una logica modalità di governo. Gli imprenditori, i lavoratori, i professionisti, gli artigiani, i coltivatori diretti, gl’insegnanti, le famiglie, tutti questi soggetti vedono la democrazia come la forma politica in cui possono portare avanti le loro legittime richieste di miglioramento, nella prospettiva più ampia del bene di tutti. I partiti di massa, di conseguenza, svolgono la funzione di dare voce e strumenti adeguati alle forze sociali; ma, per poter governare ragionevolmente, o per aspirare a farlo, è necessario che i partiti di massa siano due, non tre, o quattro, o dieci; è necessario che esista una tradizione di bipolarismo, e che vi sia una spontanea dialettica dell’alternanza. Solo così i partiti di massa resteranno abbastanza “leggeri” da non uscire dai loro limiti e dalle loro funzioni naturali, e non cominceranno a diventare così “pesanti” da opprimere, con la loro disciplina, con le loro logiche di fazione e con la loro brama di potere, i cittadini, dei quali, in teoria, dovrebbero essere l’espressione.
Nell’Italia del 1946 i partiti di massa erano tre: il socialista, il comunista e il democristiano; e quest’ultimo, a sua volta, era così composito e disomogeneo, da risultare formato, in un certo senso, da tre, quattro o cinque sotto-partiti, ovvero correnti e contro-correnti. Il Partito socialista finì per scivolare al rango di partito minore, ma il quadro istituzionale non ne risultò semplificato: anche ora che erano ridotti a due, i partiti di massa non avevano elaborato la cultura dell’alternanza, erano espressione di una situazione d’empasse, di democrazia bloccata (e non solo per colpa della guerra fredda, fattore esterno). Si detestavano al puto di non poter dialogare neppure sulle questioni d’interesse pubblico più generale; ma, sotto banco, erano complementari, e si accordavano spesso e volentieri per spartirsi le funzioni e gli organi dello Stato. Questo era preda delle loro insaziabili brame, cedeva alla loro intollerabile pressione. Tribunali, scuole, ospedali, enti pubblici, televisione, tutto era preso d’assalto, lottizzato, spartito: i partiti davano quotidianamente il sacco allo Stato, che era ridotto a un’ombra, un ectoplasma, un ostaggio perenne dei due grandi partiti (cui, nell’ultima fase della Prima Repubblica, tornò ad aggiungersi il terzo socio: il P.S.I. di Craxi).
Il resto, è storia recente. Ma né il partito-azienda di Berlusconi, né il partito-velina di Renzi, si sono discostati, nella sostanza, dalla vecchia formula del partito pletorico, tumorale, invasivo e arrogante; e gli esperimenti secondari, poco più che curiosi incidenti di percorso o mostri sfuggiti, come Frankenstein, dalle goffe mani di apprendisti stregoni (il partito-massonico di Gelli; il partito-regione della Lega prima maniera; il partito-banca, peraltro subito abortito, di Monti; il partito-protesta dei Cinque Stelle) non hanno aperto nuove prospettive. Dovremo dunque morire partitici?
Già pubblicato il 05 Maggio 2016
Del 16 Novembre 2017
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