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Via Rasella: l’obiettivo fu la rappresaglia
Parte III^
di
Roberto Bonuglia
All’ombra della prima Musa, è noto, il grano e loglio non durano molto insieme e il secondo, per dirla con Dante, prima o poi «si lagnerà che l’arca li sia tolta», con buona pace degli oscurantisti, dei negazionisti e dei censori.
La Storia – quella serbata tre le braccia eterne di Clio non ad usum Delphini dei caporali che animano gli Orti Oricellari dell’ideologia – si scrive con i documenti e pur potendo questi venir distrutti, occultati e nascosti dalla malafede di certuni, trovano sempre il modo di testimoniare la verità svelando impietosamente le gambe corte delle bugie storiografiche confezionate ad hoc.
Nel 1996 lo scrittore cattolico Vittorio Messori, iniziò a guardare in “controluce” l’episodio di Via Rasella secondo una prospettiva storiografica nuova: con quella strage, «i comunisti volevano attizzare l’odio della gente contro i nazisti e ottennero inoltre di eliminare molti partigiani non marxisti. […] I partigiani che colpirono in via Rasella avevano messo in conto una rappresaglia feroce come quella che poi si verificò alle Fosse Ardeatine. Così la Resistenza aveva raggiunto il suo obiettivo: l’odio contro i tedeschi si era riacceso» [1].
Una banda partigiana
La strage era stata congegnata dal comando politico dei Gap, nella persona di Giorgio Amendola [2] che scelse il luogo, l’ora e il battaglione da colpire [3], insieme a «Mauro Scoccimarro, Antonio Cicalini, di sicura scuola moscovita, oltre a minori ma preziosi collaboratori, infiltrati, delatori, confidenti nelle organizzazioni fasciste, nelle istituzioni carcerarie, nei presidi sanitari e polizieschi del fascismo» [4] e venne approvata, ma solo a posteriori, «da Sandro Pertini e da Riccardo Bauer, due icone dell’antifascismo storico» [5].
Il che suggerisce la rilettura di un’altra testimonianza – quasi del tutto ignorata dalla storiografia ufficiale – quella dello storico tedesco Hubert Jedin, sacerdote di origine ebraica che in quegli anni si trovava nella Città Eterna a lavorare presso l’Istituto Storico Germanico poiché sospetto alle autorità del Reich in quanto «non ariano» [6].
In una delle pagine del suo diario – scritta nei primi giorni di marzo 1944 – l’autore della monumentale “Storia della Chiesa” riportò la confidenza di un esponente della resistenza romana il quale gli confessò: «Deve succedere qualcosa che guasti questa riconciliazione (della popolazione civile) con la potenza occupante» [7].
Ciò trova conferma nell’ordine diramato dall’organizzazione militare della resistenza romana che in quei giorni aveva vietato di compiere atti di violenza come quello di Via Rasella poiché «la gravità delle conseguenti possibili rappresaglie impedisce di condurre molto attivamente la guerriglia» [8] e ciò avrebbe dovuto – nella Capitale come in tutte le altre grandi città – far preferire la via della propaganda a quella del terrorismo, poiché di questo si trattò.
Il documento era stato diramato il 10 dicembre 1943 – mesi prima, dunque, dell’imboscata organizzata dai gappisti – a tutti i comandi regionali dell’esercito nell’Italia occupata e firmato dal Capo di Stato Maggiore della Difesa Giovanni Messe ma, in realtà, era stato redatto di proprio pugno dal Colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo – che poi fu ucciso proprio nella rappresaglia delle Fosse Ardeatine – come conferma la controfirma di quest’ultimo nel dattiloscritto successivo al manoscritto autografo [9].
Che la rappresaglia – primo esempio nella storia italiana di una poi prolifica “strategia della tensione” [10] – fosse il vero e proprio obiettivo degli attentatori lo scrisse anche il socialista Alberto Benzoni il quale, nel 1999, si spinse ad affermare che «l’attentato non aveva alcun valore militare essendo le vittime dei riservisti altoatesini senza ruoli di combattenti» implicando invece «dei rischi per la popolazione civile e la certezza di una dura rappresaglia nazista» [11].
In effetti fu così: il reparto colpito a Via Rasella non era di SS [12] – come conferma il saggio postumo dello storico americano Richard Raiber [13] – ma si trattava dell’11ª compagnia del III Battaglione Polizei Regiment ‘Bozen’ al comando del maggiore Hellmuth Dobbrick: nulla più che un reparto di polizia formato da riservisti altoatesini con cittadinanza tedesca – impiegato a Roma con compiti di semplice vigilanza urbana – in quel momento in fase di addestramento.
I soldati sudtirolesi della Bozen morti nell'attentato di Via Rasella
Erano in gran parte coscritti sudtirolesi, «tutti contadini italiani arruolati contro la propria volontà a seguito della creazione della Zona di Operazione delle Prealpi […]. All’inizio della guerra questi soldati avevano prestato servizio militare per il Regno d’Italia giurando fedeltà ai Savoia; una volta sotto controllo tedesco, erano stati inviati a Roma perché sapevano l’italiano e, considerati troppo vecchi per essere impiegati al fronte, venivano utilizzati per operazioni di polizia, principalmente per fare la guardia agli obiettivi che i superiori volevano sorvegliare» [14].
L’analisi di Benzoni colse nel segno anche sul secondo punto visto che i 18 chili di tritolo usati dai gappisti nell’imboscata uccisero, eccome, i civili. Quelle del dodicenne Pietro Zuccheretti e del partigiano di Bandiera Rossa Antonio Chiaretti sono entrambe morti accertate dall’anagrafe di Roma [15] nonostante l’ignobile querelle sulla foto del corpo dilaniato del primo: fu occultata fino al 1996, dichiarata falsa dalla magistratura e sempre contestata da Bentivegna [16].
Eppure basterebbe andare «personalmente a via Rasella» per identificare «facilmente il punto esatto ritratto nella foto; è ancora oggi perfettamente visibile» [17]. La zizzania, è proprio vero, infesta i cortili della storiografia di partito, ma non cresce all’ombra di Clio.
Note:
[1] Cfr. l’agenzia Via Rasella: Messori, complotto dietro strage partigiana, in Archivio Adnkronos, AdnAgenzia, 4 settembre 1996.
[2] Lettera di Giorgio Amendola a Leone Cattani, del 12 ottobre 1964, cit., in R. De Felice, Mussolini l’alleato, vol. II, La guerra civile 1943-1945, Torino, Einaudi, 1997, pp. 562-566.
[3] G. Amendola, Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 290-291.
[4] M. Caprara, La “strage cercata” di via Rasella, in «Il Timone», a. VI, n. 32, dell’aprile 2004, p. 26.
[5] G. Mughini, Rosario Bentivegna, il “comunista sentimentale” che non s’è inventato via Rasella, in «Il Foglio», del 17 dicembre 2019.
[6] M. Matheus, Germania in Italia. L’Incontro di Storici nel contesto internazionale, Roma, Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma, 2015, p. 149.
[7] H. Jedin, Lebensbericht. Mit einem Dokumentenanhang, a cura di K. Repgen, Mainz, Matthias-Grünewald, 1984.
[8] Formazioni autonome nella Resistenza. Documenti, a cura di G. Perona, Milano, Franco Angeli, 1996, pp. 49-53.
[9] G. Lombardi, Montezemolo e il fronte militare clandestino di Roma, Roma, Edizioni del Lavoro, 1947, pp. 35-36.
[10] R. Bonuglia, Nasce a Via Rasella la “strategia della tensione”?, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”, del 25 marzo 2020.
[11] A. Benzoni, Attentato e rappresaglia, il PCI e Via Rasella, Venezia, Marsilio, 1999.
[12] R. Bonuglia, Chi ricorda i martiri cattolici di Via Rasella?, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”, del 23 marzo 2020.
[13] R. Raiber, Anatomy of Perjury. Field Marshal Albert Kesserling, Via Rasella, and the Ginny Mission, Lanham, Rowman & Littlefield, 2008.
[14] S. Valtorta, Via Rasella: una verità taciuta. Tutto quello che non venne detto: le reali ragioni di un inutile massacro, in «Storico.org» del maggio 2015.
[15] M. Peracchino, Per non dimenticare Via Rasella, «L’Indro», del 7 novembre 2014.
[16] P. Maurizio, Via Rasella e il giallo della foto del bimbo falciato, «Il Tempo», del 24 marzo 2009.
[17] Intervista a Olivia Cordsen, in M. Peracchino, cit.
Del 27 Marzo 2020
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