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25 Aprile: il capodanno dell’élite dell’odio
di
Roberto Bonuglia
Ogni culto, divino o meno, non dovrebbe mai separarsi dalla misura e dal vaglio della ragione, da una coscienza critica e autonoma dei suoi valori. In una parola sola, dal buonsenso.
Merce rara nell’Italia degli «antifascisti del sushi» [1] che all’abbrivio della pandemia preferirono elevarsi a novelli Don Ferrante ritardando l’attuazione delle misure sanitarie – adottate poi con colpevole ritardo – paralizzati com’erano dal timore di passare per razzisti. Le conseguenze? Le viviamo ormai da mesi, chiusi nelle nostre case, privati di ogni libertà, vittime involontarie, quali siamo, del totalitarismo del Terzo millennio: il buonismo radical-chic.
Ma l’inviolabile peculiarità sociale e social dei buonisti, però, ogni anno cessa in un giorno speciale: il 25 Aprile. In questa data, infatti, si assiste – non ce ne voglia San Gennaro, libero di astenersi come talvolta fa dal compierlo – all’unico miracolo che puntualmente si ripete sull’italico suolo: i «brigatisti anti odio», per dirla con Roberto Pecchioli [2], si disfano del loro atteggiamento soccorrevole e solidarista verso il prossimo e fanno proprio il monito scritto in Les nègres da Jean Genet: «Quel che ci serve è l’odio. Da esso nasceranno le nostre idee».
E così, la “festa della liberazione” diventa quella dell’odio, rivolto a casaccio – o forse no – verso un po’ tutto: ovviamente ai fascisti: chiunque dissenta, seppur in minima parte, da loro; al Tricolore che può essere esibito solo se “corretto” – ridotto così alla guisa di un negroni sbagliato – con i simboli della resistenza, ma solo quella stellata; all’Inno di Mameli al quale va obbligatoriamente preferita l’evergreen Bella Ciao; le Forze Armate, che l’anno scorso dovettero abbandonare a Viterbo la “cerimonia” dopo gli attacchi del presidente locale dell’Anpi [3]; persino la comunità ebraica non è esente da tale revisionismo civico come evidenzia la sua mal tollerata presenza ufficiale alle “celebrazioni” da almeno cinque anni [4].
Di converso, la machiavelliana realtà effettuale quest’anno ha portato i “monopolisti della memoria” a riscoprire – in una beffarda eterogenesi riservatagli dal beffardo destino – proprio quei mal sopportati “balconi” dai quali propongono ai loro adepti di intonare #bellaciaoinognicasa.
Che lo faranno non vi è dubbio. Ma che il festival della “resistenza casalinga” andrà in scena proprio in ogni casa – come recita l’hashtag – questo, è piuttosto improbabile. Non tanto per la dispensa ottenuta dalla quarantena di regime che gli ha riconosciuto il diritto di uscire per l’ora d’aria, ma perché in tal senso la storia insegna prevalendo, come è giusto che sia, sulla propaganda ideologica: se quelli fascisti furono, come dimostrato da Renzo De Felice, gli anni del consenso – «assai vasto a tutti i livelli, persino a quelli operaio, contadino e giovanile» [5] – quelle partigiane furono settimane che mai ne godettero con la medesima intensità e condivisione.
Non a caso «gli anziani, che sono i diretti testimoni di quegli eventi e purtroppo sono sempre meno, sovente non ricordano la lotta partigiana con particolare ammirazione, l’impressione è che quello che si è studiato fin’ora sui libri di storia non risponda completamente alla “vera verità”, rispetto il passaparola generazionale; o almeno che alcune verità storiche siano state volutamente manomesse o dimenticate fidandosi alla “nebbia del tempo”» [6].
I dati certificati sul portale I Partigiani d’Italia dell’Archivio Centrale dello Stato [7], ad esempio, rivelano che i combattenti dopo l’8 settembre 1943 furono appena 10.000, diventati 30.000 nel febbraio-marzo 1944 e 130.000 nei giorni precedenti il 25 aprile 1945. Solo dopo la “Liberazione” i dati ufficiali rivelano che i partigiani arrivarono a 250.000. Tra essi, inoltre, va ricordato che molti aderirono alla resistenza attratti «da un (piccolo) premio in denaro» – il cosiddetto “premio di solidarietà”, fissato tra le 1.000 e le 5.000 lire – e/o perché «volevano lavarsi la coscienza e rifarsi una verginità democratica» [8].
Un numero ad ogni modo risibile: quasi lo 0,6% dei 45 milioni di italiani che abitavano la Penisola, come rivelano i dati Istat [9]. Non va meglio se rapportiamo il dato con quelli della contemporanea Repubblica di Salò che, solo negli “effettivi”, lo doppiava, come evidenziano i dati dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito [10] i quali parlano di 558.000 unità.
Oggi come ieri, quindi, il 25 aprile rimane essenzialmente una festa dell’odio, una giornata in ostaggio di un’élite che non è mai stata “maggioranza” nella storia italiana. Nemmeno quando, «il numero dei partigiani, sul finire del fascismo, man mano che avanzavano gli alleati e la lotta si faceva meno pericolosa, ebbe un crescendo come quello del Bolero di Ravel» [11].
Che forse, a questo punto, sarebbe molto più appropriato da intonare sui balconi delle vostre “case di carta”.
Note:
[1] D. Romano, Adriano Scianca: «Contro di noi gli antifascisti del sushi», in «Il Primato Nazionale», del 29 novembre 2019.
[2] R. Pecchioli, Le brigate dell’amore e il delitto di odio, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”, del 2 febbraio 2020.
[3] C. Giannini, L’Anpi insulta militari e Usa e il generale lascia la festa, in «Il Giornale», del 27 aprile 2019.
[4] C. Voltattorni, 25 Aprile a Roma: l’Anpi contro ebrei e Aned, in «Corriere della Sera», del 4 aprile 2015.
[5] F. Perfetti, Introduzione a R. De Felice, Fascismo, Milano, Luni, 1998, p. 32.q
[6] A. Cometti, Partigiani e verità nascoste, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”, del 10 luglio 2018, [già 14 settembre 2015].
[7] Archivio Centrale dello Stato, Fondo Archivio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (Ricompart).
[8] G. De Luna, Partigiani d’Italia. Non tanti ma buoni. Ecco i numeri della Resistenza, in «La Stampa», del 14 aprile 2019.
[9] Istat, L’Italia in 150 anni. Sommario di statistiche storiche, 1861-2010, Roma, Istat, 2011, p. 102.
[10] Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (AUSSME), Repubblica Sociale Italiana, Fondo H8 Crimini di guerra, b. 4, f. 40 e b. 7, f. 30.
[11] M. Ajello, Lo strano caso dell’Anpi, la “partigianeria” senza più i partigiani, in «Il Messaggero», del 24 aprile 2019.
Del 25 Aprile 2020
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