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Tre mesi di Covid-19: la pandemia tra scientismo e deriva tecnocratica
di
Roberto Bonuglia
Sono passati tre mesi dalla conferenza stampa a margine dell’incontro con il Primo Ministro bulgaro Boyko Borissov durante la quale Giuseppe Conte dichiarò: «Non siamo preoccupati, ma siamo assolutamente vigili e prudenti […] Già adesso, senza necessità di diffondere allarmismi o […] forme di panico, stiamo adottando tutte le iniziative e le cautele per fronteggiare nel modo più efficace i rischi connessi al virus» [1].
Non è andata proprio così: il governo italiano «ha fatto moltissimi errori, ha sottovalutato il problema per ragioni ideologiche» e mentre i governatori di Lombardia e Veneto avevano chiesto di chiudere tempestivamente le frontiere, l’esecutivo ha ridicolizzato il loro operato «accusandoli di razzismo lanciando slogan del tipo “abbraccia un cinese”, “Milano riparte”» [2]. Così facendo il governo ha perso tempo a strimpellare la sua lira mentre Roma bruciava, e i fatti gravi sono due: «non sapeva di stare a strimpellare, non sapeva neppure che Roma stesse bruciando» [3].
In quei giorni strategicamente cruciali per la lotta al Covid-19, infatti, gli “antifascisti del sushi” preferirono elevarsi a novelli Don Ferrante ritardando l’attuazione delle misure sanitarie necessarie, paralizzati dal timore di passare per “razzisti”. Un ritardo che abbiamo pagato a caro prezzo e che non abbiamo mai recuperato. Due esempi su tutti: «più volte annunciato e rinviato, il “decreto aprile” arriverà a maggio» [4] e il “Modello Italia” sbandierato ai quattro venti da Conte è stato demolito punto per punto dal New York Times diventando, semmai, quello delle cose da non fare [5].
Verso una società naufragata de facto in un nuovo totalitarismo alimentato da sistemi logici che ridisegnano ‘scientificamente’ una società scevra da difetti, nella quale l’analisi critica e la riflessione teorica sono sostituite da un’ideologia economica e da una “scienza” politica che accumula fatti riducendosi a doxa neutralizzando gli aspetti fondanti dell’esistenza. Che non a caso corrispondono, in una diabolica eterogenesi dei fini, all’elenco dei divieti impostici dal lockdown di questi mesi!
Tra esse la prassi – tutta italiana – caratterizzante la “fase 1” della pandemia e deflagrata nella “fase 2”: la resa delle istituzioni democratiche allo scientismo degli esperti e delle task force. Nel corso di questi mesi, infatti, hanno gestito l’emergenza Angelo Borrelli, Domenico Arcuri e Vittorio Colao. Ma al contempo è proliferato – all’ombra dello “scudo penale” – un fitto sottobosco di specialisti ben più folto e rigoglioso, come evidenzia la recente creazione del «16° gruppo di esperti, stavolta nel tentativo di sbloccare la liquidità per famiglie e imprese» [6] che si aggiunge alle 15 diverse cabine di regia nominate in questi mesi, formate ormai da circa 450 esperti. Il risultato di questo hircocervus di centri funzionali sarà l’inevitabile crisi del rapporto tra rappresentatività e tecnicismo rischiando «di creare un vero e proprio cortocircuito, non solo per la sovrapposizione dei diversi ruoli in campo, quanto soprattutto per l’evidente disarticolazione istituzionale che ciò sta provocando» [7].
Nel frattempo continuiamo a non sapere «quando terminerà il coronavirus e, ad oggi, possiamo solamente «speculare sulle sue conseguenze economiche e politiche»: lo scriveva un mese fa Ivan Krastev. Ma il politologo aggiunse un particolare degno di attenzione: «Le epidemie sono degli eventi – non delle tendenze – che mettono sotto pressione le società in cui si diffondono. Questi sforzi evidenziano delle strutture latenti che altrimenti resterebbero nascoste» [8].
La pandemia ha palesato sia le inefficienze dei governi – declinati al plurale perché tutti hanno sottovalutato il fenomeno, da Conte a Macron, da Johnson a Trump quasi fossero «coordinati da un potere superiore, come marionette» [9] – sia i ritardi delle burocrazie europee – le quali, in ossequio alla loro natura, hanno rigidamente applicato «metriche tradizionali in momenti eccezionali» [10] –, ma anche un altro aspetto rilevante. Ci riferiamo all’onnipotenza dell’economia che ha contraddistinto il trentennio della globalizzazione come qualcosa di ideologico: «Ci è stato raccontato per anni che i governi nazionali non potevano più decidere, che la finanza decideva tutto, che mancavano le risorse. Si è visto poi che i governi nazionali sono in grado di nazionalizzare, che i soldi per finanziare gli ospedali ci sono», ma non lo fanno perché «una parte della classe politica europea, alcuni partiti sia di sinistra sia di destra, sono legati al mondo della finanza» [11].
Giuseppe Conte 3 mesi fa dichiarò: "Non siamo preoccupati, ma siamo assolutamente vigili e prudenti". Non è andata proprio così: il governo italiano ha fatto moltissimi errori!
Usa, Cina, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e Italia sono tra i 10 Paesi più colpiti al mondo dalla pandemia: non a caso le loro economie sono leader a livello mondiale e rappresentano insieme il 60% del PIL globale, il 65% della produzione manifatturiera e il 41% delle esportazioni manifatturiere del globo. «Quando queste economie starnutiscono, il resto del mondo prenderà un raffreddore» [12]. Il motivo? Negli ultimi trent’anni l’estensione delle filiere produttive su scala globale ha reso i destini di tali economie strettamente legati tra loro: «una serie di fattori di stampo tecnologico, politico ed istituzionale ha incoraggiato le imprese a frammentare a livello internazionale la loro filiera produttiva promuovendo la delocalizzazione di impianti industriali […] l’esternalizzazione di ampie fasi della produzione dei prodotti e il ricorso a fornitori indipendenti localizzati all’estero per l’approvvigionamento di beni intermedi necessari al processo produttivo» [13].
Ecco dunque che emerge l’anima mundi del “villaggio globale”: lo scientismo, inteso come derivato ineludibile di un’economia divenuta ideologia che ha perso la sua naturale vocazione di «problema di dislocazione delle risorse» per divenire una logica per la gestione societaria. L’economia si è progressivamente evoluta pericolosamente in una concezione del mondo univoca e in una tecnica di controllo e di dominio. L’economia come ideologia è la risultante della pretesa dell’economia di esercitare il predominio sulla cultura e sulla politica imponendo, su esse, il suo modo di “pensare la realtà”.
Ciò poteva avere delle conseguenze “arginabili” finché la società avesse continuato ad essere un insieme relativamente omogeneo con un forte contenuto comunitario. Ma la destoricizzazione della cultura, la fine dello Stato-nazione, la liquidazione della traditio, le migrazioni imposte dalla globalizzazione, il connesso neoliberismo e la contemporanea alienazione tecnologica hanno “liberato” il contenuto ideologico presente – fin dalle origini – nelle teorie economiche dal condizionamento dei fatti e dai limiti imposti dal sociale. Appare evidente, dunque, quanto la sottile linea che divide la politica dei competenti e la tecnocrazia non si sia infranta in questi tre mesi. Ma negli ultimi trent’anni.
Il Covid-19 non ha fatto altro che palesare un mutamento in atto da decenni? Da Conte a Macron, Johnson fino a Trump sembrano delle "Marionette" coordinati da un potere superiore!
All’abbrivio degli anni ottanta del ’900, ad esempio, in Italia, l’affascinante elaborazione politico-sociale post-ideologica dell’alleanza “tra il merito e il bisogno” si configurò come un tentativo nobile, eroico e appassionato ma da mondo dei desideri, dell’utopia. Essa partiva dal presupposto che «le donne e gli uomini di merito, di talento, di capacità, sono le persone utili a sé e utili agli altri, coloro che progrediscono e fanno progredire un insieme o un’intera società con il loro lavoro, immaginazione, creatività, con il produrre più conoscenze». Peccato che fosse un’altra e diametralmente opposta la strada intrapresa da quelle strutture latenti cui fa riferimento Krastev e che hanno governato i decenni della globalizzazione: ben attente a tenere distinto il “merito” dal “bisogno” creando ad hoc una società in preda allo scientismo nella quale «le donne e gli uomini immersi nel bisogno sono le persone che non sono poste in grado di essere utili a sé e agli altri, emarginati o dal lavoro o dalla conoscenza o dagli affetti o dalla salute» [14].
É stato realizzato un “mondo del bisogno” che ha sommato vecchie e nuove povertà sotto la regia di quelle élites le quali progressivamente sono riuscite a controllare «tutti i mezzi d’informazione, il sistema scolastico, quello giudiziario, quello politico e quello sanitario» riuscendo a centrare un obiettivo impensabile: «sette miliardi e mezzo di persone si sono lasciate schiavizzare da poche decine di multimiliardari, impadronitisi dei tre quarti della ricchezza mondiale» [15].
Il Covid-19 non ha fatto dunque che palesare il mutamento in atto da decenni: un tempo agli Stati bastava controllare il territorio per controllare la ricchezza – che si baricentrava sul territorio naturalmente – esercitando il loro monopolio politico: battere moneta, fare giustizia, riscuotere tasse. Ora non è più così: «la catena politica fondamentale, la catena Stato-territorio-ricchezza, si è spezzata» [16]. La globalizzazione ha sottratto il processo economico al contesto politico costituito dallo Stato – morto nel 1945 a bordo della nave da guerra HMS Prince of Wales a largo di Terranova con la stipula della Carta Atlantica [17] – consentendogli di svolgersi fuori della giurisdizione fiscale di ogni specifico Stato. E così colossali flussi di risorse finanziarie sono stati «raccolti, investiti, spostati, dispersi, distrutti, occultati, fatti sparire tramite reti di computer in funzione su tutta la superficie del globo, spesso collegati per mezzo di satelliti artificiali. Molte attività [..] vengono portate avanti alla periferia geografica della corporation, lontano dalle sedi centrali» [18].
É stato realizzato un “mondo del bisogno” che ha sommato vecchie e nuove povertà sotto la regia di quelle élites le quali progressivamente sono riuscite a controllare «tutti i mezzi d’informazione, il sistema scolastico, quello giudiziario, quello politico e quello sanitario»!
La velocizzazione di questo processo durante gli anni dell’utopia della globalizzazione non rappresenta una novità. É frutto di un progetto che viene da molto, molto lontano. Lo conferma l’evoluzione politico-filosofica di «una certa parte della tradizione illuminista e razionalista, nello scientismo, nel positivismo, nel materialismo storico in alcune di quelle concezioni, idee, visioni che avrebbero contribuito a preparare nel corso della storia il ‘terreno’ ai sistemi liberticidi del ’900» [19].
Lo scientismo di oggi – quello delle task force – discende quindi da quello illuminista fondato anch’esso sul monopolio della ragione e delle scienze naturali, le quali affermano la validità di un’unica ‘idea’ a scapito della tradizione culturale umanistica e di un metodo esclusivo per comprendere la realtà puntando a realizzare un ordine politico perfetto nel quale non vi è spazio per la rappresentatività, la sovranità nazionale, l’identità e la cultura tradizionali.
Il punto cruciale di questa analisi ci conduce a Eric Voegelin per il quale lo scientismo – alla stregua del positivismo e del fenomenismo – non è altro che un modello di pensiero coinvolto in una più profonda tendenza del pensiero occidentale: il processo di progressiva secolarizzazione, ossia di negazione della trascendenza, che caratterizza l’età moderna e contemporanea. Un modello che comporta il primato dell’economia intesa come ideologia e una serie di trasformazioni consumatesi nella struttura sociale del mondo occidentale nel XIX e nel XX secolo come preludio di quanto abbiamo visto accadere nel Terzo Millennio: «The ramification of science into technology; the industrialization of production; the increase of population; the higher population capacity of an industrialized economy; the transformation of an agricultural into an urban society; the rise of new social groups – the industrial proletariat, the white-collar employees, and an intellectual proletariat; the concentration of wealth and the rise of managerial class; the ever-increasing numbers of men who depend for their economic existence on decisions beyond their influence; the dependence of national power on a highly developed industrial apparatus; the dependence of the industrial apparatus on the political accessibility of markets of raw material» [20].
Altro che alleanza tra merito e bisogno, dunque. Tenendoli tali valori ben distinti il “riformismo moderno” delle elite “progressiste” è degenerato in opportunismo, rifluendo nel più torbido dei massimalismi e riducendosi inevitabilmente in tecnocrazia [21].
Il progetto realizzato dalle elite tecnocratiche è delirante in quanto produce una ‘nuova scienza’ !
Lo scientismo si è imposto sostituendo la realtà sostanziale con quella fenomenica, riducendo la complessa realtà individuale e sociale ai soli elementi immanenti, privando di validità quel tipo di conoscenza che per sua natura contempla invece anche la dimensione metafisica e spirituale del mondo. L’esito di una ragione così modulata è stato disastroso, sia epistemologicamente sia politicamente: «questo tipo di razionalismo monistico monopolizza la comprensione della realtà, presupponendo di possedere un’intelligenza superiore in grado di conoscere in via assoluta e definitiva la totalità delle cose esistenti. Ne consegue che, per mezzo di un atteggiamento mentale onnipotente e totale, tenta di porre ordine nel mondo, forgiandone uno nuovo in dettaglio e imponendo un’unica ragione sulla realtà politica» [22].
Il progetto realizzato dalle elite tecnocratiche è «delirante in quanto produce una ‘nuova scienza’ che, esplorando solo il mondo fenomenico e le relazioni tra fenomeni sensibili, pretende, da un lato, di conoscere “the real order of nature” – ovvero le leggi universali della realtà naturale, sociale e politica –, e, dall’altro, di fondare una conoscenza dell’uomo e dell’universo “that is supposed to replace the knowledge of substance originating in spiritual experience”» [23].
Da tutto ciò non può che scaturire una società naufragata de facto in un nuovo totalitarismo alimentato da sistemi logici che ridisegnano ‘scientificamente’ una società scevra da difetti, nella quale l’analisi critica e la riflessione teorica sono sostituite da un’ideologia economica e da una “scienza” politica che accumula fatti riducendosi a doxa neutralizzando gli aspetti fondanti dell’esistenza. Che non a caso corrispondono, in una diabolica eterogenesi dei fini, all’elenco dei divieti impostici dal lockdown di questi mesi.
Note:
[1] Cfr. l’agenzia Coronavirus: Conte, “non siamo preoccupati ma vigili e prudenti”. “Pronti a intensificare, se necessario, le nostre cautele”, in «Sir. Agenzia d’informazione», del 30 gennaio 2020.
[2] T. Santi, Coronavirus. La fine della globalizzazione?, intervista a Marco Gervasoni, in «Sputnik», del 21 marzo 2020.
[3] Cfr., L. Strauss, An Epilogue, in H.J. Storing (Ed.), Essays in the Scientific Study of Politics, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1962, pp. 369-378.
[4] M. Pierro, Il «decreto aprile» arriverà a maggio, in «Il Manifesto», del 30 aprile 2020.
[5] R. Bonuglia, Coronavirus: il “Modello Italia” di Giuseppe Conte? Quello degli errori da non compiere, in «Il Primato Nazionale», del 23 marzo 2020.
[6] D. Capezzone, I soldi non arrivano? Altra task force, in «La Verità», del 30 aprile 2020.
[7] M. Bozzi Sentieri, Italia. Con il lockdown c’è una deriva verso una repubblica dei tecnocrati, in «Barbadillo», del 30 aprile 2020.
[8] I. Krastev, Confini e stato interventista. Il Covid-19 sarà la pietra tombale della globalizzazione?, in «Il Foglio», del 30 marzo 2020.
[9] M. Della Luna, Regia di pandemia: governi marionette di morte, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”», del 13 aprile 2020.
[10] M. Longo, Taglio alla cieca di rating nonostante la pandemia, in «Il Sole24Ore», del 30 aprile 2020.
[11] Cfr., M. Gervasoni e C. Ocone, Coronavirus: fine della globalizzazione, Milano, Il Giornale, 2020.
[12] R. Baldwin e B. Weder di Mauro, Economics in the Time of Covid-19, Londra, CEPR Press, 2020.
[13] T.I. Palley, relazione al XXI Convegno del Macroeconomic Policy Instiute-Hans-Bockler-Stiftung, The Crisis of Globalization svoltosi a Berlino, 9-11 novembre 2017, ora in Three Globalizations, not two: rethinking the history and economics of trade and globalization, in «FMM Working Paper», n. 18 del marzo 2018.
[14] C. Martelli, Per un’alleanza riformista fra il merito e il bisogno, relazione pronunciata a Rimini il 4 aprile 1982, ora in «Mondoperaio», n. 3, del 2009, p. 84.
[15] F. Lamendola, La banale semplicità del sistema che ci schiavizza, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”», del 7 ottobre 2019.
[16] G. Tremonti, Barocco prossimo venturo, prefazione a F. Galgano (et al.), Nazioni senza ricchezza. Ricchezze senza nazione, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 10.
[17] R. Bonuglia, Chi ha perso, davvero, la seconda guerra mondiale?, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”», del 22 aprile 2020.
[18] G. Poggi, Il gioco dei poteri, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 84.
[19] S. Lagi e N. Stradaioli, Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee. Una riflessione sul monismo, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2017, p. 17.
[20] E. Voegelin, The Origin of Scientism, in Id., Published Essays 1940-1952, Columbia-Londra, University of Missouri Press, 2000, p. 188.
[21] C. Martelli, cit., p. 84.
[22] S. Lagi e N. Stradaioli, cit., p. 59.
[23] E. Voegelin, cit., p. 168.
Del 01 Maggio 2020
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